Erano solo parole al vento?

Gennaro Matino (September 03, 2015)
Sono passati appena cinque mesi dalla visita di Papa Francesco a Napoli e di tempo ne sembra trascorso tantissimo, pochi anni da quella di Papa Benedetto, ormai avvertita come preistoria. Ricordo le parole pesanti di Papa Francesco nel suo correre dalla periferia al centro, non solo luoghi fisici, ma per lui il sogno che il centro della città, di ogni uomo di buona volontà, fosse perennemente in uscita, avesse come meta ogni periferia dimenticata, sfruttata, ammalata. Migliaia di uomini e donne per le strade ad aspettarlo per ore. E poi le promesse ufficiali, la Chiesa, il governo della città, le istituzioni, tutti ai primi posti per raccogliere la sfida di Francesco.


Entrambe le visite annunciate con grande enfasi, quella di Francesco ancor di più, avrebbero dovuto dare nuovo slancio alla città e alla Chiesa, una rivoluzione di speranza significata dai tanti manifesti affissi su chiese e palazzi, che ancora da qualche parte restano stancamente a svolazzare, lentamente ingiallendosi, memoria di una festa alle spalle.


Ricordo le parole pesanti di Papa Francesco nel suo correre dalla periferia al centro, non solo luoghi fisici, ma per lui il sogno che il centro della città, di ogni uomo di buona volontà, fosse perennemente in uscita, avesse come meta ogni periferia dimenticata, sfruttata, ammalata. Migliaia di uomini e donne per le strade ad aspettarlo per ore. E poi le promesse ufficiali, la Chiesa, il governo della città, le istituzioni, tutti ai primi posti per raccogliere la sfida di Francesco.


Tutti pronti a mettere mano all’ambizioso disegno di una grande metropoli e di una Chiesa che grazie a quell’avvenimento avrebbero cambiato il loro volto. Fotografie di circostanza, analisi soddisfatta il giorno dopo per la buona riuscita della festa, avvalorata anche dai commenti di altissimo profilo della stampa.


Tutto bene allora? Tutto bene se si fosse trattato solo di una festa di piazza, solo di un avvenimento pubblicitario che avrebbe dovuto produrre risultati per numero di partecipanti e buon esito dell’organizzazione.


Ma un papa che io sappia non si presta a una festa di piazza e la sua parola pretende che corra dopo la festa. Mi sovviene la canzone di Edoardo Bennato: “Feste di piazza, le carte colorate, gli sguardi sempre ben disposti.


I capintesta con i distintivi sfavillanti si sbracciano come dannati solo per sentirsi più importanti. Tutto è finito, si smonta il palco in fretta perché anche gli ultimi degli addetti ai lavori hanno a casa qualcuno che l’aspetta. Restano sparsi disordinatamente i vuoti a perdere mentali abbandonati dalla gente”.


Un papa non si presta a una festa di piazza perché la Chiesa non ha bisogno di consensi fugaci ma di sofferte e coraggiose parole che sappiano riempire il vuoto dei tempi peggiori.

Un papa non va fatto salire su un palco come per un comizio elettorale perché la consegna che gli deriva dal Vangelo non è quella di cercare compromessi accomodanti ma la verità che salva.


Un papa non si presta ad essere l’attrazione più importante di una sagra paesana con annessa consegna di pacchi sorpresa perché è esperto di altre pesche e di sicuro più miracolose. Un papa non pensa al suo ministero come a un set cinematografico che racconti insieme verità e finzione, ma raccoglie, fissa immagini, sguardi di storia nel suo percorso terreno per consegnarli al cielo.


Soprattutto un papa sa bene che la Chiesa non è un circo di nani e di pagliacci e i biglietti di entrata non si possono facilmente prenotare in qualsivoglia botteghino. Ricordo le parole di Papa Francesco pronunciate a Scampia contro la corruzione, coraggio di significato di parole alte, lanciate in una terra lacerata da troppo tempo per mali non solo suoi, promesse tante, pochissime avverate.


Ricordo quelle ai carcerati di Poggioreale, profezia di riscatto in luogo di dignità divorata, quelle alla Chiesa locale di riprendere in mano il proprio destino, incarnata nel destino dei fratelli suoi compagni di cordata.


Ricordo la commossa presenza del successore di Pietro in una piazza Plebiscito in preghiera e il suo sguardo, le sue parole a raccontare alla città la speranza di poter ritornare ad essere luminosa, forte di memoria, ricca di futuro.


Non una festa di piazza, quella di Francesco, per lui di certo no, ma un programma socio pastorale che azzarderei a definire perfino politico nel più ampio senso della parola, che le istituzioni religiose e laiche, non solo ognuno per la propria parte, forti dell’entusiasmo di popolo, avrebbero dovuto da subito rilanciare insieme. Un tavolo programmatico di interessi comuni a partire dalle parole di Francesco, un tavolo che non c’è stato e che ora forse è tardi per organizzare.


Tavoli istituzionali prima dei grandi eventi ce ne sono tanti, dopo è improbabile. Per le feste di piazza servono solo i primi.


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