Articles by: Letizia Airos soria

  • Laura. A New York per il teatro

    La incontriamo nella nostra sede per parlare del suo lavoro e di progetti. Rannicchiata, avvolta in un grande maglione, si racconta con grande semplicità.

    Occhi che studiano, che si illuminano ed adombrano in alcuni momenti. Una voce stupendamente impostata, pause di riflessione, una gestualità molto femminile ed eloquente, la fanno identificare subito. Senza ombra di dubbio: Laura è un’attrice. Ma Laura è molto di più di un’attrice per il

    panorama culturale newyorkese italiano.

    “Sono laureata in Lettere, Discipline dello Spettacolo. In Italia ho studiato e lavorato con Dario Fo e tanti altri grandi, come Peter Brook, Eugenio Barba, Peter Stein, Soleri, ecc... Ho avuto la fortuna di frequentare un’università ricca di personalità importanti.  Poi ho recitato con Mario Carotenuto, Giancarlo Cobelli, per continuare come assistente alla regia…”.

    Laura ha molto da raccontare sul suo lavoro in Italia, ricordi, aneddoti, momenti importanti legati alla storia del teatro. Ma ad un certo punto l’Italia le sta un po’ sta stretta… «Sono arrivata dodici anni fa per caso a New York  e me ne sono innamorata. Ero un po’ delusa dallo show business italiano, o comunque da quello che mi stava accadendo intorno. Così ho deciso di fare un’internship a NewYork, in un teatro per vedere come si lavorava qui. Anche perchè il teatro americano è molto diverso dal nostro, sempre molto più legato alla tradizione.

    Fu il ‘The Kitchen’ sulla 19ma ad offrirmi questa possibilità di internship. Era così diverso, si faceva un qualcosa che mi era sconosciuto. Pensavo di rimanere solo nove mesi…e invece dopo dodici anni sono ancora qui…».

    Parlare con Laura vuol dire anche capire quanto è cambiato nel corso degli anni il rapporto degli americani con la cultura italiana ed il teatro in particolare.

    «Allora qui non c’erano compagnie teatrali italiane con dei professionisti. C’erano i giullari di piazza, ma sono sempre esistiti.  Facevano soprattutto folklore, cose degnissime per carità, però non veniva rappresentato ciò che si recitava in quel momento in Italia.  

    Così ho deciso di provarci io, di usare la professionalità che avevo acquisito, ho iniziato a fare delle rappresentazioni in italiano, anche con un certo successo. E piano piano il riconoscimento è venuto».

    E Laura mette in gioco tutto il suo background italiano, recita, organizza mostre, scrive, fa regia. Ma è evidente la cosa che più ama fare è recitare.

    «Si, prima di tutto amo recitare. Da poco molto anche insegnare teatro. Mi sto dedicando molto ai bambini. Mi diverte molto. La recitazione è la mia passione. E comunque ciò che so fare meglio, che faccio da più tempo, per cui ho superato le ansie, insicurezze ecc…»

    Ma Laura sa bene che per vincere la sua sfida americana deve essere anche una piccola imprenditrice/produttrice culturale. Non può solo fare l’attrice…

    «Amo essere diretta, ma i fondi non sono tali da potersi permettere i registi quando facciamo cose nostre. Quindi dirigo anche.  Quando produco cose, prendo spettacoli già confezionati che vengono qui, a quel punto sono semplicemente una produttrice.»

    Certo i fondi sono sempre pochi per la cultura e in un momento di crisi come questo ancora di meno. Questo non vuol dire che però Laura non sia sulla strada giusta:

    «La domanda è immensa, ogni evento che organizzo è pieno di pubblico.  Molti mi dicono che bisognerebbe trovare e gestire un teatro tutto con cose italiane, come ce ne sono già di spagnoli, irlandesi, ebrei, ecc.. E io dico sempre: ‘Se qualcuno mi regala un teatro, volentieri!’».

    Il pubblico di Laura è veramente eterogeneo. C’è domanda ovunque. “Negli ultimi anni c’è un’abitudine a New York di vedere teatro non prettamente americano e in inglese. Addirittura sono nati spettacoli con i sottotitoli. Dodici anni fa non era cosi.  Tranne che per l’Opera…”.

    Solo alcuni cenni da Laura ad alcuni degli spettacoli che ha seguito, realizzato ed organizzato, tra cui ‘Accattone in jazz’ con Valerio Mastrandrea, Roberto Gatto e Danilo Rea, una sceneggiatura che verrà ripetuta alla fine di quest’anno anche con Paola Corbellesi in ‘Mamma Roma’.  «E’ difficile mettere insieme attori così, ma sto facendo i salti mortali. Poi siamo in procinto di mettere in scena un testo della Valeri che abbiamo già provato qua ‘Tosca e le altre’. Questo con Marta Mondelli che è la mia partner. Ultimamente continuo ad andare in giro con Totò…»

    Totò. Laura è diventata importante anche per l’immagine all’estero del mitico attore napoletano. Tanto amato ma ancora troppo poco conosciuto in ambiente internazionale per quello che ha rapprensentato.

    «È una cosa nata nel 2002. In quel periodo c’era una retrospettiva su Totò al Lincon Center. L’Istituto di Cultura di New York mi chiese di curare una piccola mostra, realizzata con l’archivio della famiglia De Curtis, qui a New York. Tutto questo ha aperto le porte al viaggio all’estero di Totò.

    Piano piano negli anni si è costruita questa esposizione - … dico sempre che conta cinquanta pannelli… ma invece col tempo siamo arrivati praticamente a cento -  sulla sua vita e la sua carriera.  Vi sono illustrati anche tutti i retroscena del teatro italiano di quell’epoca, con informazioni storiche, politiche.

    Accanto alla mostra propongo un piccolo spettacolino molto modesto in cui spiego la poesia e la canzone di Totò, esponendola in maniera simpatica, perché comunque è fatta per persone che dopo devono comunque avere la voglia di conoscere di più.

    Penso sempre che con uno spettacolo non si colmano le lacune. Ma l’importante è far venire il desiderio di approfondire.

    Così posso dire che il mio rapporto con la famiglia di Toto è diventato sempre più stretto, io sono diventata la rappresentante in America. Sta per uscire un libro sulla storia della malafemmina della canzone che vorremmo portare anche qui.»

    Laura, va dove la porta un’autentica passione per il teatro e la cultura italiana. Mentre parliamo con lei ci rendiamo conto di come sia difficile raccontare tutto. Abbiamo aperto molti sipari con lei e tutti necessitano approfondimenti. E lei è una piccola prima donna, del teatro e della diffusione del teatro italiano a New York.

    Potete trovare maggiori informazioni su http://www.kitheater.com/.

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  • Life & People

    Dear Letissia... Remembering John


    What happens when an Italian abroad like me meets an American who is so Italian like John Cappelli? I’ll share it with you, looking back over my memories. John passed away a few hours ago. He was recovering in a hospital upstate where he had just undergone a major operation.

     
    Yes, it was six years ago, or perhaps more, when I met John for the first time. He had just celebrated the 50th anniversary of his professional career, and I had to write about his life for America Oggi.
     
    I see him from afar, and I recognize him even if I don’t know him. Under a statue in the courtyard of the United Nations, he’s a very thin man who wears a cap low on his head. He looks around with sparkling, curious, and extraordinarily kind eyes.
     
    Besides his eyes, I notice his smile. Open, simple, and almost like a child. And it is with this child-like enthusiasm that John Cappelli immediately takes me by the hand to show me around the U.N. “His” U.N., where he had worked as a reporter for many years.
     
    As he walks through one corridor and then another, he’s lively; he tells stories and the walls seem to follow him. His words become images. 
     
    John Cappelli almost prefers to not talk about himself, but would rather discuss the world, and most of all, journalism, the journalism of a reporter who puts the facts before anything else. 
     
    He takes me to his office, on the third floor if I recall correctly. Most of all, I remember the smell of humid papers, the heaviness of the typewriter, and an enormous printer, the likes of which you won’t find anymore. And then there are so many books, newspapers, notes. It’s a mess. John didn’t really use that room anymore, but the atmosphere from years before still hung in the air. It lived there.
     
    He began his story at the very beginning. He was born in 1927 in New Jersey. His father was from Marucci in Abruzzi and his mother from historical Mulberry Street in Manhattan. He lost her when he was only six years old. He moved to Italy where he lived until 1946. He talked about himself, about the boy who spoke English, who didn’t understand Italian, but who knew the Abruzzese dialect in his head.
     
    He actively participated in the war as an anti-Fascist, many times putting his own life at risk. He delivered information to American military troops hidden in the Abruzzi Mountains. He recounts all of this in vivid detail.
     
    I imagine John as a young man in the mountains. I think of Leone Ginzburg, slain by Nazi-Fascists. As he speaks, he defines himself with pride: the last of the communists.
     
    He returned to the U.S. in 1946 with the Marine Corps, and he settled in the Bronx on Arthur Avenue. As he describes it for a few minutes, I can see what life was like in those years. In 1962, he married Nives, who was also a writer. He enlisted in the Air Force. He completed his studies in Economics and began to work as a journalist for L’Unità del Popolo which was published in the Bronx. He then became a correspondent for the daily newspaper Paese Sera di Roma, a position he held for nearly 30 years until 1984. He then worked for America Oggi, keeping his office at the United Nations.
     
    “Lettissia…,” John continues to reminisce.
     
    And at this point, John’s words become increasingly intense, more words of a journalist. The stories that he tells are alive; he seems to experience them in the present moment, even though they span decades. Political and scientific figures, heads of states, and kings unfold before me.
     
    That day I spent several hours with him. It was the first of many meetings that took place whenever he came to New York. Over the past few months I had mostly long email exchanges with him. He used the Internet with the curiosity of a fifteen-year-old and he asked me about everything: how does Facebook and Wikipedia work, what is an online community. He told me about the evolution of his book of memoirs which he had finished very recently.
     
    Lettissia… that day, so many events, names, stories. From Spain under Franco to Cuba before Castro, Che Guevava. His meeting with Kennedy. The FBI and racism in New Orleans in 1960. Martin Luter King, Jr. Alida Valli, Gina Lollobrigida, Gerard Philippe, Joe Di Maggio, and he even accompanied Amintore Fanfani, Pajetta, Ugo Pecchioli, and Giorgio Napolitano to Little Italy…
     
    He also spoke of his colleagues with pride, from RAI’s Antonello Marescalchi, to Furio Colombo, Ugo Stille, Ruggero Orlando, Oriana Fallaci, Gaetano Scardocchia, Gastone Orefice, Rodolfo Brancoli… and David Horowiz.
     
    And then he told me what his boss Fausto Coen said to him: “I like your American style of journalism: terse and not verbose.”
     
    He was the first to tell me the story of Carlo Tresca and many other Italian-Americans.
     
    I looked among my papers for the article he wrote at the time. I still haven’t found it. But I realize that I don’t need to re-read it in order to properly recall our first meeting.
     
    “Letissia… we were already friends. It truly was love at first sight,” John continued. It was because of what he referred to as “his stroke” that he had trouble pronouncing the “z” in my name. Letissia…it was so sweet.
     
    From that point on, he always called me Letissia even in written form.
     
    And from then on he wrote to me practically every day to comment on events and articles with his unfailing irony. His emails always began with “Letissia…,” and they closed with a sweet, “Your John” that I will never forget.
     
    I will miss you, John. Letissia bids farewell to the last communist.

    Yes, it was six years ago, or perhaps more, when I met John for the first time. He had just celebrated the 50th anniversary of his professional career, and I had to write about his life for America Oggi.

     

    I see him from afar, and I recognize him even if I don’t know him. Under a statue in the courtyard of the United Nations, he’s a very thin man who wears a cap low on his head. He looks around with sparkling, curious, and extraordinarily kind eyes.

     

    Besides his eyes, I notice his smile. Open, simple, and almost like a child. And it is with this child-like enthusiasm that John Cappelli immediately takes me by the hand to show me around the U.N. “His” U.N., where he had worked as a reporter for many years.

     

    As he walks through one corridor and then another, he’s lively; he tells stories and the walls seem to follow him. His words become images. 

     

    John Cappelli almost prefers to not talk about himself, but would rather discuss the world, and most of all, journalism, the journalism of a reporter who puts the facts before anything else. 

     

    He takes me to his office, on the third floor if I recall correctly. Most of all, I remember the smell of humid papers, the heaviness of the typewriter, and an enormous printer, the likes of which you won’t find anymore. And then there are so many books, newspapers, notes. It’s a mess. John didn’t really use that room anymore, but the atmosphere from years before still hung in the air. It lived there.

     

    He began his story at the very beginning. He was born in 1927 in New Jersey. His father was from Marucci in Abruzzi and his mother from historical

    Mulberry Street
    in Manhattan. He lost her when he was only six years old. He moved to Italy where he lived until 1946. He talked about himself, about the boy who spoke English, who didn’t understand Italian, but who knew the Abruzzese dialect in his head.

     

    He actively participated in the war as an anti-Fascist, many times putting his own life at risk. He delivered information to American military troops hidden in the AbruzziMountains. He recounts all of this in vivid detail.

     

    I imagine John as a young man in the mountains. I think of Leone Ginzburg, slain by Nazi-Fascists. As he speaks, he defines himself with pride: the last of the communists.

     

    He returned to the U.S. in 1946 with the Marine Corps, and he settled in the Bronx on

    Arthur Avenue
    . As he describes it for a few minutes, I can see what life was like in those years. In 1962, he married Nives, who was also a writer. He enlisted in the Air Force. He completed his studies in Economics and began to work as a journalist for L’Unità del Popolo which was published in the Bronx. He then became a correspondent for the daily newspaper Paese Sera di Roma, a position he held for nearly 30 years until 1984. He then worked for America Oggi, keeping his office at the United Nations.

     

    “Lettissia…,” John continues to reminisce.

     

    And at this point, John’s words become increasingly intense, more words of a journalist. The stories that he tells are alive; he seems to experience them in the present moment, even though they span decades. Political and scientific figures, heads of states, and kings unfold before me.

     

    That day I spent several hours with him. It was the first of many meetings that took place whenever he came to New York. Over the past few months I had mostly long email exchanges with him. He used the Internet with the curiosity of a fifteen-year-old and he asked me about everything: how does Facebook and Wikipedia work, what is an online community. He told me about the evolution of his book of memoirs which he had finished very recently.

     

    Lettissia… that day, so many events, names, stories. From Spain under Franco to Cuba before Castro, Che Guevava. His meeting with Kennedy. The FBI and racism in New Orleans in 1960. Martin Luter King, Jr. Alida Valli, Gina Lollobrigida, Gerard Philippe, Joe Di Maggio, and he even accompanied Amintore Fanfani, Pajetta, Ugo Pecchioli, and Giorgio Napolitano to Little Italy…

     

    He also spoke of his colleagues with pride, from RAI’s Antonello Marescalchi, to Furio Colombo, Ugo Stille, Ruggero Orlando, Oriana Fallaci, Gaetano Scardocchia, Gastone Orefice, Rodolfo Brancoli… and David Horowiz.

     

    And then he told me what his boss Fausto Coen said to him: “I like your American style of journalism: terse and not verbose.”

     

    He was the first to tell me the story of Carlo Tresca and many other Italian-Americans.

     

    I looked among my papers for the article he wrote at the time. I still haven’t found it. But I realize that I don’t need to re-read it in order to properly recall our first meeting.

     

    “Letissia… we were already friends. It truly was love at first sight,” John continued. It was because of what he referred to as “his stroke” that he had trouble pronouncing the “z” in my name. Letissia…it was so sweet.

     

    From that point on, he always called me Letissia even in written form.

     

    And from then on he wrote to me practically every day to comment on events and articles with his unfailing irony. His emails always began with “Letissia…,” and they closed with a sweet, “Your John” that I will never forget.

     

    I will miss you, John. Letissia bids farewell to the last communist.

     

  • Cara Letissia... Il mio ricordo di John Cappelli


    Cosa succede quando un’italiana all’estero come me incontra un americano così italiano come John Cappelli? Lo racconto oggi, cercando nei ricordi. John è scomparso solo poche ore fa. Era ricoverato in un ospedale dell’upstate dove aveva da poco subito un intervento chirurgico.


    Sì. Erano 6 anni fa, o forse di più, quando per la prima volta ho incontrato John. Aveva appena raggiunto cinquant’anni di carriera e dovevo scrivere la sua storia per Oggi7. Uscì con una grande foto in copertina.


    Lo vedo da lontano, lo riconosco anche se non lo conosco. Sotto la statua del cortile delle Nazioni Unite  un signore magrissimo con una coppola sulla fronte.  Si guarda intorno con occhi vispi, curiosi, straordinariamente buoni.


    Dopo gli occhi vedo il suo sorriso. Aperto, semplice, quasi da bambino. Ed è con fare fanciullesco che John Cappelli mi prende subito quasi per mano per visitare le stanze dell’ONU. Le “sue” stanze dell’ONU, quelle dove ha lavorato come cronista per anni.


    Cammina tra un corridoio e l’altro, sembra leggerissimo, racconta e quelle mura sembrano seguirlo. Le sue parole diventano immagini.


    John Cappelli sembra quasi non aver voglia di parlare di sè, ma solo di quel mondo e soprattutto di quel giornalismo. Il giornalismo di un cronista che anteponeva i fatti a tutto.


    Mi porta nel suo ufficio, al terzo piano se non sbaglio. Adesso ricordo prima di tutto quell’odore, l’umidità delle carte, la pesantezza delle macchine da scrivere, un enorme stampante come non se ne vedono più. E poi tanti libri, giornali, appunti. Confusione.  John non usava quasi più quella stanza, ma l’atmosfera sembrava rimasta ad anni prima. Si viveva.  


    Comincia a raccontarsi proprio dall’inizio. Nasce nel 1927 nel New Jersey. Il padre era di Marucci in Abruzzo, la madre della storica Mulbery Sreet di Manhattan. La perde quando aveva ha solo sei anni. Si traferisce in Italia, dove rimane fino al 46. Racconta di se stesso, di quel ragazzo che parlava inglese,  che non capiva l’italiano ma aveva in testa  il dialetto abruzzese.


    Vive la guerra attivamente, come antifascista, mettendo più volte a rischio la propria vita. Porta informazioni ai militari inglesi nascosti nelle montagne abruzzesi. Racconta tutto con vivezza di particolari. Vedo il giovane John tra le montagne. Ricorda Leone Ginzburg, trucidato dai nazifascisti. Mentre parla si definisce con orgoglio: l’ultimo dei comunisti.


    Torna negli USA nel 46.  con la Marine Corps e si stabilisce nel Bronx, ad Arthur Avenue. La descrive per qualche minuto e mi sembra di vederla in quegli anni. Nel ‘62 sposa Nives, anche lei scrittrice. Presta servizio presso la  Army Air  Force. Completa gli studi e  comincia a lavorare come giornalista per L’Unità del Popolo, pubblicato nel Bronx.  Diventa poi corrispondente del quotidiano Paese Sera di Roma, incarico che mantiene  per quasi trent’anni, fino al 1984. Dopo lavora per America Oggi, conservando il suo ufficio alle Nazioni Unite.


    Letissia… continua a raccontare John.


    E a questo punto le parole di John si fanno ancora più intense. Sempre più parole di un cronista. Le storie che racconta sono  vive, sembra di viverle al presente, nonostante coprano decenni. Sfilano davanti a me personalità della politica, della scienza, capi di stato, re.  


    Quel giorno ho passato con lui diverse ore. Le prime, seguite da altri incontri quando veniva per New York. Negli ultimi mesi ho avuto con lui soprattutto lunghi scambi via email.  Usava Internet con la curiosità di un quindicenne e mi chiedeva di tutto. Come furnziona facebook, wikipedia, cosa è una community on line. Mi raccontava l’evolvere del libro con le sue memorie, terminato da pochissimo.


    Lettissia… quel giorno episodi, nomi, e tante storie. Dalla Spagna di Franco alla Cuba prima di Castro, Che Guevava. Il suo incontro con Kennedy. L’FBI e il razzismo a New Orleans nel 1960.  Martin Luter King. Poi Alida Valli, Gina Lollobrigida, Gerard Philippe, Joe Di Maggio e ancora Amintore Fanfani, Pajetta, Ugo Pecchioli e Giorgio Napolitano accompagnati a Little Italy…


    Parlava orgoglioso anche dei suoi colleghi. Di Antonello Marescalchi della Rai, di Furio Colombo,  di Ugo Stille, Ruggero Orlando, Oriana Fallaci, Gaetano Scardocchia Gastone Orefice, Rodolfo Brancoli… e David Horowiz.

    E poi del suo direttore Fausto Coen che gli disse:  “Mi piace il tuo far cronaca all’americana, stringato e non da parolaio”.

    Fu lui a raccontarmi per primo la storia di Tresca, come di molti altri italo-americani.


    Ho cercato tra le mie carte l’articolo che scrissi allora. Non l’ho trovato ancora. Ma mi rendo conto che non ho bisogno di rileggerlo per ricordare  quel primo incontro.


    Letissia… eravano già amici. Un vero colpo di fulmine. John continuava a raccontare.  A causa di quello che chiamava ‘il mio stroke’ aveva allora difficoltà a pronnunciare la z del mio nome. Letissia… era dolcissimo.


    Da allora mi ha sempre chiamato Letissia, anche per iscritto.


    E da allora mi ha scritto quasi tutti i giorni per commentare con la sua immancabile ironia eventi, articoli. Per parlami dei sui scritti su America Oggi. Anche le sue email cominciavano con “Letissia….”. Finivano poi con un dolce “tuo john” che non dimenticherò mai.


    Mi mancherai John.  Letissia saluta l’ultimo comunista.




     

  • Nel gruppo da sinistra Walter Salvitti, Vincenzo Marra,Renato Miracco, Francesco Maria Talò, Alfio Russo, Alfio Russo, Luigi De Santis, Berardo Paradiso nel corso della visita all'esposizione

    La lingua italiana al Nectfl. Insieme per farla insegnare

    L’abbiamo trovata nell’esposizione italiana alla North East Conference on the Teaching of Foreign Languages (Nectfl), una risposta concreta sulla presenza di offerta di formazione e di prodotti relativi alla lingua italiana nello Stato di New York e dintorni.
     

    Camminare tra uno stand e l’altro, parlare con gli espositori, leggere e visionare le loro proposte,  per i-Italy si è trattato non solo di un’occasione per conoscere lo stato dell’arte della promozione della nostra lingua negli USA, ma anche modo per avviare una riflessione. In quest’articolo vi raccontiamo la presenza italiana alla fiera attraverso una serie di dichiarazioni che responsabili delle istituzioni ed espositori ci hanno rilasciato.

    Venerdì scorso il Console Generale, Ministro Francesco Maria Talò, insieme ai rappresentanti  istituzionali dei vari enti partecipanti, ha visitato e si è intrattenuto diverse ore nell'area espositiva. Lo abbiamo accompagnato anche noi. Si tratta del secondo Nectfl nel corso del suo mandato. “Questa volta c’è stata ancora più interazione tra i partecipanti. - ci dice subito Talò -  Noi italiani siamo entrati nell’organizzazione come protagonisti. E’ previsto un ricevimento dedicato solo a noi, a presentare i prodotti sulla lingua italiana. E’ un segno importante dell’attenzione che ci hanno riservato gli organizzatori di Nectfl”.

    “Rispetto al 1998 siamo in crescita e  bisogna considerare che è un anno di crisi.  Gli espositori presenti, in quello che l’anno scorso abbiamo chiamato ‘Viale Italia’, sono soddisfatti nonostante la consapevolezza della crisi.  Vince l’ottimismo,  dettato dall’entusiasmo e dalla  sicurezza che con la volontà si riesce a superare  anche un momento difficile.  Sono tutti consapevoli della necessità di lavorare in sinergia. 

    E’ prevalsa  la nostra impostazione: bisogna essere inclusivi, fare entrare tutti nelle nostre iniziative.  Poi occorre coordinarsi per marciare lo stesso passo verso un obiettivo comune,  senza  protagonismi. Ognuno così avrà certo la visibilità che merita, Vanno superati i momenti delle corse solitarie. Di chi vuole essere campione.”  

    E ancora il diplomatico sulla domanda presente negli USA di lingua italiana:
    “C’è una crescita straordinaria di richieste per l’apprendimento della lingua italiana. Quello che è importante dire è che viene da persone di diversa provenienza etnica. Aumenta la consapevolezza che è una lingua di cultura e non etnica. Interessa chiunque ami la cultura, indipendentemente dall’entroterra familiare. Naturalmente per gli italo-americani c’è un motivo in più. Ma va detto che è importante parlare la lingua italiana non per motivi affettivi, di nostalgia o estetici, ma perché oggi è semplicemente utile.”

    ‘Viale Italia’ è un po’ la creatura del Consolato Generale di New York che ha svolto un grande lavoro di coordinamento coinvolgendo insieme l’ICE, l’Istituto Italiano di Cultura, l’Enit e la Camera di Commercio italo-americana, anche lo Iace, l'Italian American Commettee on Education, il John D. Calandra Italian American Institute della Cuny, la scuola d’Italia Guglielmo Marconi, e  fondazioni private come Ilica. Importante anche la presenza del prof. Luigi De Santis, direttore dell Educational Office dell’Ambasciata d’Italia a Washington, che coordina tutti gli uffici scolastici della rete consolare USA.

    Editoria, turismo scolastico, scuole per stranieri, percorsi didattici. Alfio Russo, direttore dell’Ufficio Scolastico del Consolato Generale di New York, ci da qualche dettaglio sulla presenza italiana:  “Siamo riusciti a migliorare la qualità degli espositori e per quanto riguarda le sessioni formative dei docenti. Si possono vedere  libri di testo di diverse  case editrici,  conoscere le scuole italiane per stranieri, poi ci si può informare su viaggi studio, soggiorni linguistici. Una delle novità è la presenza della fondazione di Verona con un progetto su Giovanni Rodari.
    In termini di opportunità  nell’area espostiva penso che siamo allo stesso livello degli spagnoli.  Tutto questo grazie ad un grande lavoro di coordiamento tra tutte le istituzioni italiane presenti a New York e anche con l’ICE di Chicago che ha una delega per l’editoria con aziende italiane.”

    Presenti alla fiera l’Accademia Italiana, Alma Edizioni, Arcobaleno, Babilonia Center for Italian Studies, Dante Alighieri Siena, Edilingua Edizioni, Eli, Arcobaleno, Babilonia Center for Italian Studies,  Guerra Edizioni, La Scuola, Loescher Editore, Sorrento Lingue.

    Chiediamo alla rappresentante dell’ICE di Chicago, Elena Phillips maggiori informazioni:
    “Sono 10 anni che partecipiamo a tutte le fiere nazionali. L’ICE ha riconosciuto l’importanza dell’Editoria sul mercato americano ormai da tempo e ha creato questa task force di cui sono a capo. Si trova nella sede di Chicago e promuove editoria e scuole di lingua. Quattro anni fa ci siamo resi conto che era importante partecipare a Nectifl, perché in quest’area sono presenti la maggioranza degli studenti d’italiano. E’ sorto anche Italbooks, un sito che ormai è diventato un importante punto di riferimento nel settore. E’ nato con l’idea di far conoscere l’editoria italiana negli USA, ma abbiamo accessi da tutto il mondo. Anche da Sud Abrica e Australia.”

    Una presenza significativa anche quella della Scuola d'Italia Guglielmo Marconi, l'unica scuola in nord America ad offrire l'intero ciclo di studi sia in inglese, sia in italiano riconosciuta dalla stato italiano. La preside, Anna Fiore, tiene a puntualizzare a sua volta l’impotanza di un evento simile: “Per dare visibilità alla Scuola ma soprattutto per stare uniti, visto che abbiamo una missione comune: diffondere e promovere lingua e cultura italiana”

    Chiediamo al rappresentante dell’Enit, Walter Salvitti, perché è importante legare la promozione turistica alla conoscenza della lingua italiana. “ Facciamo parte del Sistema Italia esotto l’egida del Consolato abbiamo partecipato dando un contributo fattivo. Abbiamo messo a disposizione materiale promozionale legato alla promozione e apprendimento della lingua italiana. La conoscenza della nostra lingua è importante anche per aumentare l’attenzione verso il Paese come come meta turistica. Questo vale per tutti coloro che vogliono visitare l’Italia ed in particolar modo per cosidetti ‘turisti di ritorno’.

    Joseph Sciame, Vice-President for Community Relations at St. John's University, visita con grande attenzione ogni stand. Lo vediamo domandare, raccogliere materiale. E’ la persona migliore a cui chiedere perchè è importante venire ad una fiera cosi per un italo-americano, per un insegnante italo-americano.

    “Come Heritage and Culture Committee abbiamo lavorato molto per l’italiano,   caldeggiato l’AP program, e l’insegnamento nelle scuole a tutti i livelli. Qui l’esposizione  è di un alto livello ed è importante per attirare l’attenzione su quella che è una grande opportunità da non mancare: conoscere la lingua italiana. E vedo che è grandissimo l’ammontare di informazioni e materiale. E’ disponbile per tutti, americani, italo-americani. E’ un vero punto di riferimento per gli insegnanti e le scuole.”.


    Anthony Tamburri
    , dean del Calandra Italian-American Institute (Cuny),  è presente anche nella veste di conduttore della trasmissione Italics programma televisivo sulla CUNY Tv.

    Davanti allo stand del suo Istituto intervista diverse personalità persenti all'esposizione. "E' importante che il Calandra collabori a questo tipo di eventi - ci ha detto - perchè è un Istituto dedicato alla storia e alla cultura degli americani di origine italiana, e quindi anche allo studio della lingua. Si deve anche riconoscere che al Nectf non si parla soltanto di lingua dal punto di vista pedagogico, ma  della cultura italiana in toto.  Quest'evento è stato poi un occasione importante perchè il Calandra , facendo parte di 'Viale Italia', ha avuto la possibilità di dialogare, confrontarsi con tutti altri enti riuniti,  sia quelli privati non a scopo di lucro che quelli governativi.

    C’è aria di soddisfazione tra i vari stand e, tra coloro che sicuramente non nascondono questo sentimento. c’è Berardo Paradiso, presidente dello IACE (The Italian American Committee on Education).

    “Credo che occorre rifare la storia di Nectfl. E’ stato lo IACE, con la mia presidenza, a raggruppare i soggetti partecipanti sotto la regia del consolato con Alfio Russo. E’ importante stare insieme,  per creare sinergie e avere più forza. Siamo in una fiera come tante ed in questo caso il prodotto da mostrare è la lingua. E’ un prodotto che si vende e chi viene è un possibile acquirente. Un insegnante, una scuola… spesso devono scegliere tra una lingua ed un'altra. Tutto dipende da come si presenta. Un prodotto può essere ottimo, ma se non lo si conosce non si può vendere.”

    Un’altra visitatrice che avviciniamo è Silvana Mangione, vice Segretario del Consiglio Generale degli Italiani all’estero: “Il CGIE non può che essere presente in una fiera di lingue straniere.

    Promuovere l’italiano è uno dei nostri compiti. Dobbiamo cercare di diffondere la cultura italiana al massimo, ce lo hanno chiesto i giovani per i quali il CGIE ha fatto un lavoro costante negli ultimi due anni e mezzo per preparare la prima Conferenza Mondiale dei Giovani dello scorso dicembre. Questi giovani ci hanno detto che identità è anche lingua e cultura. E ce lo dicono soprattutto i giovani italo-americani che sono già arrivati alla loro prima post-confeenza. Si stanno dando una struttura meravigliosa a rete negli USA per poi unirsi al resto del mondo”

    Vicino al suo stand, sotto il logo della Niaf, troviamo Vicenzo Marra, presidente di ILICA. Sorseggiamo con lui un ottimo espresso italiano. “Essere oggi qui? E’ la nostra missione. Per

    promuovere lingua e cultura bisogna fare appello a tutte le forze specializzate. Noi non siamo specializzati nel fare corsi o insegnare l’italiano, non sappiamo fare quello che fanno le istituzioni, noi siamo esperti di business e mentre facciamo business ci autotassiamo. Mettiamo giù dei fondi per contribuire a fare meglio questo lavoro di promozione della nostra cultura. Non ci vuole molto. Abbiamo per esempio acquistato metà degli stand di ‘Viale Italia’ e li mettiamo a dispozione delle istituzioni. Cosi queste con i soldi che hanno fanno cose diverse. Ilica è stata concepita nel 2003, incorportata nel 2004. Stiamo andando avanti ed è importante che si sappia, che i mezzi di comunicazione diffondano il nostro lavoro. Lo so, è difficile pensare che qualcuno faccia qualcosa senza far politica,  prendere posizione… ma è così“

    Renato Miracco, direttore dell’Istituto italiano,  entra con noi nei dettagli.
    “Essere insieme rende l’idea di cosa possiamo fare insieme, ma va detto che l’italiano può

    essere insegnato in tanti modi. Attraverso la musica, l’arte, il teatro, il giornalismo… ci sono diversi strumenti per apprendere la lingua. Dobbiamo ricorrere a strade trasverse, essere insieme in questa trasversalità è il vero modo di stare insieme. E questo non deve essere un punto di arrivo, ma di partenza. Ci siamo. Ma siamo solo all’inzio e c’è ancora una lunga strada da fare in questo senso.” E cosa chiede il direttore ai suoi interlocutori?
    “Vogliamo che non ci si perda nel piccolo regionalismo. Vogliamo che parli la nazione. Che ci si presenti come una nazione. Basta con tutte queste dispersioni e piccole cose riferite ad un piccolo territorio. E’ l’Italia unita che si presenta per l’appendimento della lingua. Non l’italia divisa in regioni, ma l’Italia intera con tutta la ricchezza delle regioni”

    Nella presentazione del Kairos Italy Theater troviamo un esempio eccellente di cosa il direttore Miracco vuole dire quando parla di promuovere la lingua seguendo percorsi trasversali. Così l’ideatrice e presidente Laura Caparrotti, ci racconta il suo programma: “Mostriamo agli insegnanti un pezzettino dello spettacolo sulla storia dei gesti italiani di Marta Modelli, poi uno spettacolo sull’abc dell’italiano che si apprende nonostante dialetti diversi, un pezzo di Buzzati in inglese, un estratto su Totò e chiudiamo con 'Accattone in Jazz'. Raggiungere scuole, insegnanti, educator publisher che lavorano con le lingue straniere non è facile. Questa è per noi una grande opportunità.”

  • Silvana Mangione. L'italiano negli USA è vivo ed in piena salute


    Incontriamo il vice-segretario del CGIE a margine della 56esima edizione della North East Conference on the Teaching of Foreign Languages (Nectfl).  (Vedi articolo nei related)


    Non ci è sfuggito l'entusismo con cui l’abbiamo vista visitare gli stand italiani. Tra un libro e un filmato, un poster e piano di studi.  Prove di come la presenza italiana, anche per quanto riguarda la lingua a New York, sia  ricca per mezzi ed interesse.


    E promuovere la lingua di Dante per Silvana Mangione è una missione fortemente legata alla sua attività di rappresentante istituzionale. Lo ha fatto e lo fa con entusiasmo, competenza e, quando occorre, aggressività.


    Seduti vicino ad uno stand, pieno di colorati testi scolastici, affrontiamo con lei alcune questioni che sappiamo le stanno molto a cuore. Questo anche allo scopo di dissipare ogni dubbio sullo stato di salute della lingua italiana negli USA.


    Promozione della lingua italiana ed attenzione da parte delle Istituzioni italiane. Come va?

    “Siamo al punto in cui dobbiamo riuscire a far capire al Governo italiano che la promozione della lingua e cultura italiana all’estero non è una attività a favore degli italiani all’estero,  ma a favore dell’Italia.


    Racconto una cosa. Nella recente Commissione continentale in Australia  erano presenti tre senatori di una delegazione del Comitato per la gestione degli italiani all’estero. E c’era un senatore della Lega che, appena arrivato, con assoluta sincerità e correttezza ci ha detto:  noi non sappiamo nulla di emigrazione di italiani all’estero. Ci ha ascoltato però e al terzo girono ha preso la parola: ‘Tornerò indietro per sensibilizzare. – ha detto -  I  venti milioni di euro che mancano per la lingua vanno trovati. Servono prima all’Italia che a voi.’


    Abbiamo cominciato con i parlamentari. Occorre ora convincere il Governo che se in momenti di vacche magre bisogna risparmiare,  occorre scegliere bene su cosa.  A fronte di miliardi di euro, venti milioni di euro per continuare a promuovere l’italiano per l’italianizzazione del mondo non sono nulla. “

    Esiste poi anche una realtà statunitense diversa dal resto del mondo. Come si fa ad attirare l’attenzione su questo fatto? E come si fa e far sì che una volta stanziati i fondi sia possibile utilizzarli intelligentemente?


    “Chi si loda si imbroda" si dice a Bologna. L’ho detto personalmente al Ministro Frattini in un incontro che abbiamo avuto con lui alla Farnesina sui tagli della finanziaria. Ho detto chiaramente che bisogna sostenere la promozione della lingua in via generale, ma che in determinati mercati va fatta di più che su altri.


    In Europa esiste la risoluzione n. 77 del 1977 che pochi ricordano e che non è mai stata applicata. Fa obbligo agli Stati membri di insegnare, fin dall’asilo, oltre alla lingua del paese in cui si trovano anche quella materna. Si deve pretendere dai rispettivi governi. Perché non lo fanno? Perché ci sono una serie di costrizioni incancrenite che si muovono in determinati modi. Non si ricorre nemmeno nel momento delle vacche magre a soluzioni che potrebbero portare a liberare fondi per destinarli ad altre aree nelle quali sono maggiormente necessari. Poi vanno ovviamente, come dici, assegnati con intelligenza e soprattutto maggiore mancanza di parzialità”.

    Sappiamo che per ora, sul fronte AP, gli italiani qui hanno perso. E’ una grave sconfitta, ma non segna certo la fine dell’italiano.  Eppure il rischio  è che il messaggio passato, insieme a questo insuccesso, sia quello che non interessi, che non ci sia la domanda…


    “No non è cosi. La sconfitta è di chi ha gestito per parte americana i rapporti con il College Board. Non certo delle istituzioni italiane. E neanche della Comunità italiana.


    E’ di chi ha contrattato numeri ed impegni che non era possibile mantenere. Non c’è stata alcuna sconfitta dell’italiano. Anzi l’insegnamento e apprendimento stanno crescendo. L’apprezzamento dell’italiano come lingua di cultura sta aumentando in misura esponenziale. L’AP è una certificazione,  un esame che consente ai ragazzi di entrare alle università americane portando con loro un certo numero di crediti gratuiti. Solo questo.

    L’AP non è l’insegnamento dell’italiano che funziona benissimo e sta crescendo fin dalla scuola d’infanzia.


    E’chiaro che nel momento in cui si è verificato un caso di questo genere le persone di buona volontà cercheranno, e stanno già cercando, di trovare soluzioni alternative e certificazioni alternative. Perché se il College Board ha fatto dell’AP un programma attraverso cui guadagnare centinaia di migliaia di dollari l’anno, secondo noi la certificazione  deve servire a favorire lo studio dell’italiano e l’inserimento dei giovani nelle università.  Questo è il nostro interesse vero e non quello finanziario…”





     

  • Facts & Stories

    Paul Ginsborg. A Professor as a Friend

    He has an extraordinary style. We watch him from a distance as he speaks with NYU graduate students. It is rare for anyone who has attended universities in Italy to see such prestige together with such straightforwardness.

    Young people regard him with admiration, but he does not look down on them from on high. He converses with them good-naturedly; he makes friendly jokes. He is surrounded by friends, but not those who belong to his “court” as we frequently see with Italian university professors.  

    No, one would be hard-pressed to find a Paul Ginsborg in Italian academia. It would be just as difficult to attend a conference in Italy like the one that took place last week-end at Casa Italiana Zerilli- Marimò where professors of Paul Ginsborg’s caliber presented alongside emerging young talent.

    Paul Ginsborg is Professor of Contemporary European History at the University of Florence.
    He is the author of several books on Italy, including "A History of Contemporary Italy: Society and Politics", 1943-1988 (2003) and "Silvio Berlusconi: Television, Power, and Patrimony ("2007). In 2002, he founded the political movement "Laboratorio per la Democrazia "(Laboratory for Democracy) in Florence, along with many other political, academic, and public figures such as Professor Ornella de Zordo and Senator Pancho Pardi. The initiative has two main objectives: to protect Italian democracy and to contribute to its renewal.

    A few of us from i-Italy’s editorial staff had the opportunity to sit down with him before his keynote speech at the symposium "Denuncia: Speaking up in Modern Italy". We talked with him about democracy in Italy, the role of mass media in contemporary democratic politics, the new president of the United States Barack Obama, as well as other social and political issues such as immigration and racism.

    At the table, his English mannerisms were intertwined with very Italian gestures. His hands moved gracefully while he spoke. As his eyes quickly passed from one speaker to the next, it was clear that he was very interested in this “New York” topic of conversation that was rarely explored, and that he was full of desire to know and understand.


    THE TYRANNY OF THE MAJORITY

    Alexis de Tocqueville discussed his theory of the “tyranny of the majority” in his masterpiece Democracy in America. Could his work and thoughts also apply to modern Italy? Should we fear the possibility of a tyranny of the majority in Berlusconi’s political era?

    "I think it is a very legitimate fear in Italy now that Berlusconi is prime minister. There is a great simplification of the system: Italian political life is becoming bipartisan and it is forming in a way that is not in line with the traditions of the Italian republic. Before, as you know, we had proportional representation, with the active presence of minorities within the Italian parliament being one of its fundamental characteristics. This system was a good safeguard against the tyranny of the majority but, on the other hand, it allowed the formation of government by coalitions which are usually slow and unstable. They are often real disasters: just think of what happened to Prodi’s government with its 11 parties. This is one of the reasons why Berlusconi is pushing for a bipartisan system and he has public opinion on his side.

    We must also remember that other major parties, the Partito Democratico more than the others, support this transformation. The bipartisan system would benefit the largest single party in the Chamber of Deputies and would create a real tyranny of the majority since the minor parties would be excluded from representation. This is why I consider Tocqueville’s fear a legitimate one for modern Italy."

    CIVIL SOCIETY AND POLITICAL LIFE

    In his masterpiece, Toqueville also stressed that the involvement of civil society in the political life of a country is one of the main pillars of democracy. Is this still true?

    "Toqueville saw in America something that he did not see in France or in other European countries: citizens took certain issues into their own hands on a daily basis and formed active clubs and associations which were skeptical of government, and this in some ways diluted the influence of the family. He considered the middle area of civil society to be incredibly important to the quality of democracy, and I think this is also true today for modern Italy. The activities of anti-mafia organizations such as the ARCI – Associazione Ricreativa e Culturale Italiana (Recreational and Cultural Italian Association), Comitati per la Difesa della Costituzione (Committees for the Defense of the Constitution) are outstanding. They are active in the centre-north of the county, and are also considered to be an immensely rich cultural resource recognized by many authorities. However, their efforts are still somewhat inefficient since they don’t translate into the political arena."

    Robert Putnam discovered that there is a decline of civic involvement in the political life in America and other industrial nations. Will this phenomenon be particularly dangerous in Italy?

    "Robert Putnam’s Bowling Alone is a great book – there is no question about it. Let me give you two comments. First of all, Putnam talked about 'social capital' rather than 'civil society.' He never used this latter term. For him it is always a question of people getting together; it does not matter what for. The nature of the civil society, on the other hand, consists of so-called “normative values”: it believes in tolerance, peace, and in horizontal rather than vertical relationships. Social capital is not that; it is people living in a neighborhood and saying “hello” in the morning. Thus there is a conceptual distinction that we have to make between social capital and civil society; it may seem academic but it is not.

    Italy has many active social associations. Since things are not going well for the country, there are strong associations and an active grassroots movement.

    To go back to Putnam’s book, let’s remember that it was written in 2000, before Barack Obama’s extraordinarily mobilizing campaign. America has finally returned to give lessons in democracy to rest of the world for the first time in many decades. This is why the categories in Putnam’s work should be revised: what he didn’t expect to happen actually happened, and we had this amazing, massive social involvement in a campaign for the presidential primary."

    LABORATORIO PER LA DEMOCRAZIA AND OTHER CIVIC MOVEMENTS

    You collaborated with public figures and academics such as Professor Ornella de Zordo and Senator Pancho Pardi to found the movement Laboratori per la Democrazia (Laboratories for Democracy). What explanation can we give for this kind of social initiative’s inability to take root?

    "The relationship between social movements and the political arena is very complicated and there is not always an easy solution. Social associations by and large do not and cannot last, unless people become full-time organizers. They have their own lives and full-time jobs, so meeting five times a week –as such organizations would require – would just be impossible for them.

    These movements could continue only if the political arena were different. If we started our own party, we could have probably represented only 3-5% of the electorate; we would have become just one more of the incredibly numerous little parties in Italy. On the other hand, what would have been the use to enter an unreformed political arena? It is a caste system with its own rules and regulations. To enter that world, you should leave your original job, become a professional politician, and dedicate yourself solely to that path. The political arena has becomes so hostile that the shift from social movement to politics does not take place.

    The left wing parties should do something about this in the first place. I have often spoken with some of the representatives, people like Fassino and D’Alema, and I have asked them to work together so that the political arena could help and sustain the Laboratorio per la Democrazia and all the other organizations by recognizing them as valuable groups. All they offered to do was organize more meetings. They did not want to change anything.

    What should change? It seems to us that, besides the possibility of creating your own party, you have only one solution: get some of your people into their parties…

    The Left should create the right conditions in which the social movements could flourish. We could not just go and become members of other political parties. We would have to adapt to their dynamics and we would most likely stop fighting for the causes that we joined these political institutions to support in the first place.
     
    There is still, however, one other possibility: questioning the entire paradigm of what politics is, and its relation to everyday life. We should start at a local level. Politics have already changed over time and people’s faith in politics has declined. We must change the political institutions and let social society enter them and influence their activities. We must let this huge movement get through the very narrow neck of the bottle and change the political arena.


    DEMAGOGY BETWEEN BERLUSCONI AND OBAMA

    You consider Berlusconi to be a demagogic leader. Do you feel the same about Obama? Is he or could he become a dangerous populist phenomenon?

    "There are many dangers, and he could fail to carry out his program and keep his promises. But still, what happened in 2008-2009 as a model of democratic practice will be reported in political science and history textbooks. There is no question about it. He has made history, and he did it in the most spectacular way. In any event, we cannot expect him to be the grassroots leader he was in Chicago; as the president of the United States he can no longer be an activist."


    INTERNET AND OTHER SOCIAL NETWORKS

    You stress that television has played an important and dangerous role in creating the kind of isolation that Putnam wrote about, and that it has caused a decline in social involvement. Could the Internet and the new social networks contrast this tendency?

    "It could. We have to consider that nowadays the only screen in a family’s home is no longer the television; we turn on the computer screen much more often. The Internet, by the way, is not always progressive. Huge portions of it are not modern at all, and we still have an infinite number of sites offering entertainment and pornography. Plus, I do not think that the Internet is an effective place to dialogue. I still believe that there is no substitute for face-to-face meetings. They are occasions to learn, to compromise, and to reach conclusions. The Internet and email, on the other hand, are very good for organizing but very bad for discussions. They are not places for meaningful conversations and extemporary dialogues. They do not offer people the opportunity to engage each other."


    ITALY, IMMIGRATION, AND RACISM

    Italy has been a land of emigration for the longest time, a place which people have left to find a better life elsewhere. Unfortunately, Italians were not always welcomed in their new homeland. In the United States especially, they suffered racial discrimination for a long time. Isn’t it strange to see people who have remained in Italy, but whose relatives emigrated and settled in other countries, that are racist today and refuse to accept new immigrants?

    "People never learn from history, even their own history. As an example, let me tell you about my father. He was a Jewish doctor in London and suffered a lot of anti-Semitism in the 1930s. But in the 1960s when Indians immigrated to London, he became racist towards them, seemingly forgetting his own history and the Holocaust that killed many of his relatives. People never learn. When they see the “other,” it is a “different other,” so they will not help to fight discrimination."

    We are struck by his passion when he speaks. We leave him with one final question: Why did an English citizen decide to dedicate his life’s work to Italy?
     
    "I fell in love with Italy when I was just a child. In the summertime, my father would drive me and the rest of the family all the way from London to Forte dei Marmi in Tuscany."

    And we learn something else about the professor. He describes his days there as moments of “liberation” and absolute joy that gave him the opportunity to begin his “romance” with the country that later on would become his homeland.

    The last surprise for us came when he proudly announced: “I have been an Italian citizen for over a month.”

    (Article in collaboration with Marina Melchionda. Edited by Giulia Prestia)

  • Le Chiese Valdesi e quella laicità che non c'è. "Meglio con la Democrazia Cristiana". Incontro alla Casa Italiana Zerilli Marimò

    Molte domande e risposte, riflessioni, preccupazioni e speranze. Intorno ad un tavolo, nella biblioteca della Casa Italiana Zerilli Marimò abbiamo incontrato, insieme al direttore Stefano Albertini, due importanti esponenti della Chiesa Valdese in Italia: la Pastora Maria Bonafede ed il Prof. Paolo Naso. (leggi profili alla fine dell’articolo)

     
    Li abbiamo tempestati di curiosità, ne è nata un conversazione molto ampia che tocca diversi temi visti con un’ottica particolare. Uno sguardo che va al di là non solo dell’oceano, ma che supera quella palude tutta italiana dove, da qualche tempo, sembrano sprofondare certe tematiche.
     
    Con quest’articolo un ampio resoconto della conversazione.
     
    La visita in America, i protestanti americani e un pò di storia della Chiesa Valdese
     

    Maria Bonafede: “E’ una visita importante la nostra. Mancavo da tre anni. Abbiamo incontrato la Chiesa  Riformata statunitense che è molto più piccola della Chiesa Riformata italiana, pur essendo molto più grande di noi, parliamo di 300 - 400 mila persone. Abbiamo creato i presupposti per dei legami solidi. Loro hanno scoperto la Chiesa Valdese. Sapevano che esisteva, avevano mandato un loro missionario per cercare un collegamento. Però incontrarci qui è stato molto importante. E’ una chiesa molto simile alla nostra, di grande minoranza pur essendo molto strutturata. Poi sui temi di ricerca ci è parsa molto vicina come sensibilità”.

     
    Stefano Albertini: Posso fare una domanda molto banale? Ma gli altri protestanti riconoscono a voi Valdesi un primato temporale, teologico? Il fatto di essere arrivati tre secoli prima viene riconosciuto? I protestanti americani conoscono già la vostra storia?
     
    Maria Bonafede: “No, quasi sempre la dobbiamo spiegare. Infatti quando la conoscono magari sono al corrente della storia del passato e pensano che sia qualcosa di archeologico. Quindi il fatto di scoprire che siamo una piccola Chiesa, però vitale con questa vocazione, e che fin dalla nascita abbiamo legami internazionali con tutto il mondo li colpisce. Così i protestanti americani, in questo viaggio, hanno mostrato un interesse grandissimo”.
     
    Stefano Albertini:  Voi avete avuto quasi 700 anni di persecuzioni…
     
    Maria Bonafede: “Si, e nel 1184 siamo stati scomunicati, come movimento pauperistico”.
     
    Stefano Albertini: E non vi hanno mai ritirato la scomunica?
     
    Maria Bonafede: "No, hanno chiesto scusa nel '98, abbastanza con leggerezza... Comunque c'è stata la clandestinità. Poi, dopo l'adesione alla Riforma, con la Controriforma si va proprio nella dimensione di annientamento.
     
    I Valdesi erano arrivati fino in Calabria, dove c'è ancora un paese che si chiama Guardia Piemontese, che ha le strade coi nomi valdesi. E lì sono stati completamente fatti fuori, trucidati, e così nel resto d'Italia.
     
    Poi, nel 1848 hanno avuto 'le patenti di libertà' da Carlo Alberto, un mese prima degli ebrei, quasi in contemporanea. Praticamente tutte le Chiese Valdesi sono nate dopo il '48 e soprattutto dopo il '70, con l'unità d'Italia ed il ridimensionamento del Vaticano.
     
    Il periodo d'oro è stato 1870-1929, seguito poi dal Concordato, che ha dato molto spazio e valore al Cattolicesimo, con privilegi importantissimi. I Valdesi, va detto, non sono stati perseguitati nel periodo del fascismo. Sono stati però molto controllati.
     
    Se qualcuno predicava sull'antico testamento si faceva notare che non lo poteva fare, era ammesso solo il nuovo. Quindi pesante controllo, però non persecuzione. Questo era dovuto al fatto che ufficialmente i Valdesi non hanno preso delle posizioni ferme, avevano troppa paura che la loro Chiesa venisse annientata. Hanno però aiutato gli ebrei in silenzio.
     
    Io tra l'altro ho fatto una tesi sulle storie valdesi e gli ebrei nel periodo delle leggi razziali. Un po' dappertutto, ma specialmente nelle Valli Valdesi, c'erano persone che ospitavano famiglie della comunità ebraica. Come anche nelle città. Per esempio a Firenze il pastore Tullio Rinai ha creato una vera e propria organizzazione. Aveva una botola quadrata di 1,5 metri dove al momento opportuno nascondeva gli ebrei. Sempre lì c'era poi una signora che faceva le carte d'identità false.”
     
    Paolo Naso: “A Torino c'era un ospedale valdese in cui sono stati nascosti ebrei. Anche a Milano, era un fatto abbastanza generalizzato l’aiuto agli ebrei, però nella clandestinità, senza un pronunciamento politico ed anche senza una denuncia.
     

    Tutto cambia ovviamente nel '43 quando scoppia la guerra partigiana. I quadri della Chiesa Valdese si uniscono alla lotta partigiana. Pastori e studenti di teologia aderiscono. Il nome forse più noto è quello di un ingegnere laico della Chiesa d'Ivrea a Torino, Hanry Jervis, che viene trovato e torturato. Era un capo partigiano. Un altro importante nome è Jacopo Lombardini, che decide di aderire alla lotta partigiana senza indossare le armi. Va con i partigiani ma non combatte, non spara. Viene preso e muore a Mauthausen. Insomma, ci sono delle storie anche molto molto pesanti".

     
    Il ruolo della Chiesa Valdese come minoranza
     
    “Va però aggiunta una cosa: la Chiesa Valdese nell'84 è stata la prima ad ottenere le intese, ad esempio l'articolo 8 della Costituzione. Un articolo trascurato per 40 anni.
     
    Con il rinnovo del Concordato, Craxi ritiene che ci sia un'attinenza e, quindi,  viene finalmente applicato l'articolo costituzionale negletto.
     
    In virtù di questo, le Chiese Valdesi aprono la breccia in Italia. Altre comunità di fede seguono. Gli Ebrei due anni dopo. Pentecostali ed Avventisti poco dopo. Luterani e Battisti molto dopo. Le grandissime comunità di fede islamica, che oggi sono la seconda comunità religiosa in Italia, non hanno ancora nessun riconoscimento.
     
    In virtù dell'intesa i Valdesi aderiscono al meccanismo di ripartizione dell'8 per mille con una performance di rilievo. I Valdesi sono 30.000 in Italia. Ovviamente non tutti hanno possibilità di destinare il proprio 8 per mille. Le firme che ha ottenuto la Chiesa Valdese erano 250.000. Quindi siamo ad una performance di 20 o 25 volte la consistenza della Chiesa Valdese. Con un aumento di firme del 10% nell'ultimo anno”.
     
     
    La battaglia per la laicità
     
    Stefano Albertini: Quindi il Paese apprezza quello che fate. Quali sono i motivi?
     
    Maria Bonafede: “I motivi dell'apprezzamento? Quelli che ci scrivono, e sono in tanti, pongono l’accento sul fatto che siamo una Chiesa per la libertà. Si riferiscono al fatto che prendiamo posizioni aperte su diverse questioni etiche e sociali”.
     
    Letizia Airos: Qualcuna di queste posizioni? E poi la vostra battaglia per la laicità colpisce…
     
    Maria Bonafede: “Secondo noi le Chiese devono contribuire a creare il dibattito per dare il loro contributo, ma non entrare così pesantemente nelle questioni dello Stato, che deve essere autonomo nelle decisioni. Questa posizione è molto apprezzata.
     
    Ci siamo espressi a favore della ricerca scientifica. Della possibilità di utilizzo delle cellule staminali, non solo adulte, ma anche embrionali. Sulle unioni civili. C’è stato poi il caso di Eluana Englaro, con cui ci siamo molto esposti. Io sono andata a trovare il padre di questa ragazza perché mi colpiva molto la sua storia. Lui, tra l'altro, ci ha chiesto se non ci fossero degli ospedali valdesi per sua figlia, ma non era possible. Noi gli ospedali valdesi in Piemonte non li abbiamo più, li abbiamo ceduti alla Regione anni fa.
     
    Un’altra cosa che deve colpire sicuramente è che non usiamo i soldi l'otto per mille per la Chiesa. Il nostro Sinodo ha deciso tanti anni fa’, c'è stata un'animatissima discussione, prendiamo questi soldi ma li usiamo per il prossimo, per i servizi diaconali, per la cultura ma non per pagare i pastori, non per il culto.
     
    La gente ci dice: ' voi non li usate per la vostra Chiesa, ma li usate per fare del bene, per costruire una cultura diversa, per aiutare sia in Italia che all'estero chi ha bisogno'. Poi noi pubblichiamo come spendiamo tutti i soldi al centesimo, sia sul sito che sul giornale nazionale.
     
    Io ero contraria all'otto per mille perchè si tratta di una legge clericale, un sistema di finanziamento del cattolicesimo esteso ad altre chiese. Una legge per le chiese, poi lo Stato gira il suo otto per mille, non fa nessuna pubblicità, non dice come spende i soldi.
     
    Devi proprio cercarlo perchè altrimenti non lo sai.
     
    Noi abbiamo visto che possiamo fare delle cose belle. Sono anche andata in Africa a vedere un po' di progetti che abbiamo finanziato. E’ chiaro che in Africa si fa pure in fretta a sentirsi buoni. Porti un pozzo in un villaggio di 500 persone e le donne invece di fare sei chilometri avanti e dietro con un secchio in testa fanno 200 metri e hanno l'acqua. Troppo facile, però effettivamente questo è successo e credo che noi abbiamo una responsabilità , quella di gestire nel migliore dei modi questi denari che alla fine sono tanti. Quest'anno abbiamo avuto quasi sei milioni”.
     
    Letizia Airos: Volendo trovare una parola chiave legata alla vostra attività, quale scegliereste? Responsabilità, laicità...
     
    Paolo Naso: “A me piace molto la parola laicità. Laicità e senza aggettivi, nel senso che ora in Italia ricorre la moda di dire ‘la buona laicità’, ‘la santa laicità', io dico laicità nel senso di separazione tra Chiesa e Stato. Chiara, rigorosa e lineare, anche un riconoscimento che implica pluralismo, parola difficile da pronunciarsi in Italia. E’ evidente che anche l'Italia come tutta l'Europa è una realtà culturalmente, eticamente e socialmente sempre più variegata.
     
     
    L'islam è la seconda religione per numero di partecipanti in Italia, Francia e Spagna. Ci sono importanti comunità che si sono costituite nel giro di pochissimi anni, come l'ortodossa, in massima parte grazie all’emigrazione dalla Romania. Quindi l'Italia sta cambiando, sta riformando il suo volto, il suo scenario religioso e quindi sta diventando un paese pluralista. E’ al tempo stesso un paese fortemente secolarizzato, con tassi di partecipazione alla vita religiosa molto bassi. Tuttavia, la raffigurazione pubblica e politica del paese è quella di uno Stato fortemente cattolico e basta. Non esiste, come in Irlanda per esempio, una ferma attenzione ai principi costituzionali di separazione tra Stato e Chiesa.
     
    Ammetto che la mia personale passione nei confronti degli Stati Uniti è legata proprio al fatto che si tratta di un Paese ove esiste un modello di separazione tra lo Stato e le confessioni religiose da una parte, ma anche un modello di pluralismo confessionale che non ha paragoni nel mondo.
     

    Da questo punto di vista siamo rimasti molto perplessi nel vedere come il mondo cattolico, in occasione della visita del Papa qui negli Stati Uniti abbia detto: 'che bello il modello americano'. Ciò denota un abbaglio forte. Il fatto che qui in America esista una comunità importante cattolica, con oltre 60 milioni di membri, non significa che non vi sia, ciò che il Papa contesta in Europa, una rigida separazione tra lo Stato e le confessioni religiose e quel pluralismo estremo che invece lui denuncia come deriva che porta al relativismo. Un pluralismo parente stretto di una concezione di indifferentismo religioso e spiriturale. E' sorprendente che gli piaccia l'America e poi in Europa invece contesti il pluralismo.

     
    In Italia siamo arrivati al paradosso di un alto esponente della gerarchia cattolica, il Segretario generale della Conferenza Episcopale, il quale, in riferimento all'articolo 8 della Costituzione, che dice tutte le confessioni religiose sono egualmente libere di fronte alla legge, conclude: il fatto che siano egualmente libere non significa che abbiano gli stessi diritti”.
     
    La Chiesa Cattolica e la libertà religiosa
     
    Maria Bonafede: “C'è stata una grossissima agitazione nella Chiesa Cattolica contro la legge sulla libertà religiosa che noi abbiamo tanto sostenuto. Perché in fondo, tutti quelli che non hanno l'intesa, che sono la maggioranza in Italia, sono ancora regolati con le leggi del periodo fascista. E quindi non c'è una legge che consenta per esempio di affittare un locale di culto ad una chiesa. I pentecostali non possono ancora. Devono affittarlo al nome del pastore o ad altro nome perchè non c'è un'amnistia di culto”.
     
    Paolo Naso: “Non c'è un matrimonio religioso celebrato da ministri di altre religioni che abbiano l'intesa con valore civile. Il che vuol dire che per fare una cosa giusta dal punto di vista legale è necessario sposarsi in comune e poi fare una cerimonia religiosa. Però, se esiste un sistema di parità costituzionale, questo dovrebbe essere implementato. Invece non è il caso”.
     
    Il rapporto con lo Stato Italiano
     
    Letizia Airos: E’ diventato più rigido negli ultimi anni l’atteggiamento da parte della Chiesa Cattolica o dello Stato Italiano?
     
    Paolo Naso: “Lo Stato Italiano non ha una chiarezza di prospettive, si naviga a vista. Il governo Berlusconi precedente aveva provato a portare avanti delle intese. Il governo D'Alema prima ne aveva portate avanti due, il governo Berlusconi altre due, in particolare per Testimoni di Geova e Buddisti, aveva aggiunto altre sei intese e quindi anche gli Induisti, i Mormoni etc... Quindi sembrava intenzionato. Poi si è tutto fermato.
     
    Prodi ha rilanciato le intese, ma non ha avuto la forza di approvarle, né tantomeno di approvare la legge quadro sulla libertà religiosa. Ora siamo ripartiti con delle nuove intese, in particolare forse va in porto una piccola decisione riguardo la Chiesa Valdese e la Chiesa Avventista. Io ho il fortissimo sospetto che la Lega impedirà l'approvazione definitiva delle vere intese nuove, perché riguardano anche la religione induista e la religione buddista che sanno di immigrazione.
     
    E questo è contro il paradigma fondamentale, il mantra di questo Governo. Cioè non esiste un problema di immigrazione, non c'è una politica di integrazione da sviluppare. Quindi mi stupirei insomma se questo Governo si dovesse muovere nella direzione dell'approvazione di queste due intese”.
     
    Meglio quando c’era la Democrazia Cristiana
     

    Stefano Albertini: Qual'è il vostro bilancio da Valdesi? Voi avete questo punto di osservazione privilegiato di minoranza storica. C'è una diminuzione di laicità dello Stato? Erano più laici i democristiani?

     
     
    Maria Bonafede: “Si, ora è veramente infelice doverlo dire”.
     
    Paolo Naso: “ Io vorrei ulteriormente rafforzare, era proprio meglio. La presenza di un partito apertamente cattolico implicava che esso avesse una piena legittimazione nei confronti di quella che si intende come la più grande agenzia culturale che c'è in Italia, cioè la Chiesa Cattolica. Il Partito Democristiano non aveva bisogno di dimostrare nulla. Erano cattolici e quindi si potevano permettere, essendo pienamente legittimati, anche qualche distacco, anche qualche scarto".
     
    Stefano Albertini: E poi anche all'interno del partito c'era un dibattito culturale...
     
    Paolo Naso: “Si, c'era. Oggi i partiti del centro sinistra, tutti compresi, anche i partiti del centrodestra, non hanno questa sorta di marchio di qualità. Per cui è goffo vedere come, soprattutto i laici del centrosinistra, abbiano provato a legittimarsi nei confronti della Chiesa Cattolica, mostrandosi più realisti del re. Berlusconi, che pure poco ha a che fare con la tradizione cattolica e con il cattolicesimo un po' di tipo italiano, si dimostra o tenta di dimostrarsi come il bravo discepolo della dottrina morale e sociale della Chiesa Cattolica”.
     
    Maria Bonafede: “E pensate che Rosy Bindi, che è una persona apertamente cattolica, continua a ribadire la necessità della laicità dello Stato”.
     
    La riaffermazione delle radici cristiane in Europa
     
    Paolo Naso: “Un secondo elemento, oltre a questa esigenza di legittimazione, a mio modo di vedere è l'evoluzione che c'è nel contraddittorio. Cioè: che cosa sta facendo questo Papa? Secondo noi sta provando a lanciare una grande battaglia culturale intesa alla riaffermazione delle radici cristiane dell'Europa. Quindi l'Italia ha un compito strategico, perché ritiene che la grande sfida contro il relativismo, la secolarizzazione, il pluralismo, si giochi non nel contesto globale, ma si giochi nella vecchia Europa. Da qui una sostanziale disattenzione nei confronti dei grandi processi del sud del mondo, anche della Chiesa Cattolica in Africa, in Asia ed in America latina. Una concentrazione sullo scenario europeo.
    Una lotta molto ferma contro relativismo, modernità, pluralismo, che diventano parole chiave per definire un nemico da combattere. Da questo punto di vista il protestantesimo, essendo figlio di questa cultura della modernità, del pluralismo, della libertà di coscenza, non è più un interlocutore. In questo nuovo contesto cattolico, che vuole cristianizzare de iure, visto che de facto non ci riesce, le istituzioni europee, e quindi l'Italia come paese chiave, è chiaro che c'è una pressione sul corpo politico molto molto forte, infinitamente più forte di quanto ci debba essere in un contesto pluralista e secolarizzante come quello europeo”.
     
    Stefano Albertini: Di fatto De Gasperi ha detto di no al Papa e nessuno poteva mettere in dubbio che De Gasperi fosse cattolico. Nessuno, quando lo fece con Pio XII per l'operazione Sturzo poteva mettere in dubbio la sua solidità.
     
    Immigrazione ed Italia
     
    Letizia Airos: Siete negli USA anche per un convegno su Chiesa e protestanti con particolare riferimento a tematiche legate alla questione immigrazione.
     
    Paolo Naso: “Noi siamo preoccupatissimi. Nel senso che l'Italia ormai è un paese di immigrazione. Abbiamo 4 milioni di immigrati, sono il 6,6% della popolazione italiana. Quindi siamo entrati nella fascia medio alta del Paese, ad alta concentrazione migratoria in Europa.
     
    Abbiamo una quota purtroppo crescente di irregolari, calcolata nell'ordine del 10-20% delle persone. E’ determinata dal fatto che in Italia non c' è una legge organizzata sull'immigrazione che consente un accesso regolare. Fatalmente vi sono accessi irregolari.
     
    Perché se la porta è non dico socchiusa, ma è chiusa, fatalmente si entra dalla finestra, ed è quello che sta succedendo in questi anni. Il paradosso è che da una parte il Governo sotto il ricatto e poi la pressione di una sua componente importante, la Lega Nord, dice di non voler promuovere nessuna politica nuova, di immigrazione. Anzi tende a proporre un modello espulsivo con provvedimenti di allontanamento agli immigrati. Dall'altra, tutti gli indicatori economici ci dicono che l'Italia ha bisogno di una componente di immigrati, e lo dimostra il fatto che gli immigrati presenti in Italia hanno un tasso di occupazione superiore a quello degli italiani.
     
    Quindi l'impressione è che in realtà si stia proponendo un gioco di specchi, cioè che da una parte si dica no all'immigrazione, dall'altra si sia invece in qualche modo ben contenti che gli immigrati ci siano. Ne consegue un modello schizofrenico, che io definisco immigrazione senza integrazione. Cioè ci piacciono gli immigrati, abbiamo bisogno di loro perché lavorano bene. Ma detto questo non ci sentiamo impegnati in nessuna politica di stabilizzazione, di regolarizzazione, di integrazione. Alcuni esempi: in Italia non si ottiene mai la cittadinanza, se non in casi eccezionali. Questo vuol dire che dopo 20 anni di permanenza in Italia la persona non ha acquisito alcun diritto superiore a quello che è appena arrivato. Per le seconde generazioni è un problema drammatico”.
     
    Stefano Albertini: Cioè i ragazzi nati in italia, da genitori stranieri, non ottengono la cittadinanza?
     
    Paolo Naso: “Assolutamente, questo è drammatico. Ius sanguinis. In particolare c'è il problema dello Stato italiano e dell'attualizzazione delle norme. Si tratta di un procedimento che non ha automatismi, ed è affidato soltanto al caso, alla valutazione del singolo caso. Pura discrezionalità".
     
    Stefano Albertini: Che poi sono tutte decisioni di polizia legate al Ministero degli Interni, non c'è una struttura deputata?
     
    Maria Bonafede: “No, vi racconto per esempio il caso del pastore trogolese venuto a lavorare in Italia. Si tratta di una bravissima persona con famiglia. C’era una buona disposizione nei suoi confronti, era stato chiamato, aveva lettere di invito, il lavoro, la casa, tutto certificato. Eppure, quando è andato a chiedere notizie della sua pratica è stato maltrattato dalla polizia. Un funzionario ha strappato il suo foglio, per fortuna si era fatto due fotocopie. Se perdi quel foglio hai finito. Gli è stato strappato in quattro pezzi. Ha dovuto scrivere al prefetto per ottenere giustizia. Sono cose pesanti”.
     
    Paolo Naso: “E aveva tutti i documenti per il visto, pensa un poveraccio... Un altro elemento che ci dice qualcosa del modello immigrazione senza integrazione sono le normali procedure burocratiche. Ad esempio: il permesso di soggiorno dura un anno, non puoi rinnovarlo prima della scadenza, ma soltanto dopo. Questo per avere il nuovo permesso di soggiorno, che tendenzialmente dura ancora un anno, massimo due anni. Tu hai bisogno di circa 9 mesi, 10 mesi, pertanto la vigenza del nuovo permesso di soggiorno e ancora 1 o 2 mesi. Talvolta, ti arriva quando è già scaduto. Tu sei virtualmente irregolare.
     
    Quindi è la legge che produce irregolarità . Con la conseguenza che evidentemente c'è un'intenzione politica e non solo un deficit tecnico nel creare questa zona grigia.
     
    Sostanzialmente l'idea è: vieni in Italia, lavori, ma sei invisibile. Devi essere invisibile e la valigia deve essere sempre pronta. Perché noi siamo nella condizione di esercitare una pressione verso il rientro e l'espulsione.
     
    Questo meccanismo non funziona. Cioè, nei grandi modelli di immigrazione che si registrano in Europa, quello di una permanenza con una quota cosi alta di persone: 6,6%, senza una prospettiva di integrazione solida è un modello che implode. Quindi noi stiamo creando le premesse per delle brutte cose.
     
    Per fortuna l'italia non ha le Banlieues, non ha le grandi concentrazioni, potremmo fare una buona politica di integrazione. Ma questo a condizione che si voglia investire nelle scuole, nella formazione, nei permessi per il lavoro, nell'assistenza sanitaria. Invece stiamo registrando una serie di norme che vanno nella direzione opposta. I ragazzi immigrati nelle classi per gli immigrati. L'assistenza sanitaria è garantita solo a chi ha soggiorno regolare. Il medico curante dovrebbe addirittura denunziare. Questo va comunque nella linea del messaggio subliminare: meno ti fai vedere nei luoghi pubblici, meglio è. Cosi si favorisce il nascere dei ghetti, si producono delle zone grigie, un mercato parallelo della sanità, uno dei permessi di soggiorno”.
     
    L’opinione pubblica italiana e la diversità
     
    Letizia Airos: E ci sono anche provvedimenti da parte di amministratori locali. Come a Lucca, dove si bandiscono ristoranti etnici nel centro della città…
    Stefano Albertini: Questo vuol dire cancellare l'identità. 'ci siete va bene, ma non fatevi vedere e soprattutto non siate visibili con la vostra diversità'.
     
    Letizia Airos:  Sta secondo voi cambiando in peggio l'atteggiamento dell'italiano medio nei confronti del diverso? Queste leggi riflettono l’opinione pubblica o quantomeno aumentano la distanza?
     
    Maria Bonafede: “Determinano, in parte lo riflettono, ma dipende dai posti. Ci sono dei paesi del bergamasco in cui non si respira, il ‘se ne tornino a casa’ è molto diffuso, anche nei bar, dovunque senti parlare male degli immigrati. Però secondo me un po' lo si determina, si creano le premesse. E’ chiaro che se un medico è libero di denunciare un irregolare questo non ci va più all'ospedale. Si ammalerà di più e si creeranno degli ospedali clandestini”.
     
    L’elezione di Obama e gli italiani
     
    Daniele Ministeri: Da questo punto di vista, l'esempio di Barack Obama, un uomo di colore eletto Presidente degli Stati Uniti, può evere una qualche influenza anche sull'opinione pubblica italiana?
     
    Maria Bonafede: “Ovviamente abbiamo tutti tifato Obama, almeno io personalmente. Ero in un convegno pieno di africani quando è stato eletto e ho capito lo spostamento dell'asse da come questi, a cui in fondo non importa niente perché vivono in paesi africani, erano felici e aspettavano queste elezioni come il riscatto dell'umanità. È cambiata la guida del mondo, è cambiato il nostro posto nel mondo. Invece gli italiani questo secondo me lo hanno percepito in pochi. Appunto, Berlusconi fa battute sul Presidente 'bello e abbronzato' e finisce lì…”.
     
    Paolo Naso: “Non collegano. Innanzitutto perchè qui si parla di immigrazione, non di immigrazione africana. Per esempio, l'italiano medio, oggi è rumeno. Il problema quindi è uno bianco, ieri era il rom. Il governo Prodi, tra le altre cose, è caduto sulla questione rom perché si era creata una campagna mostruosa manipolando tragedie che hanno colpito la Chiesa Valdese.
    La signora Reggiani, uccisa da un rom, era membro attivo della Chiesa Valdese di Roma. Per fortuna la famiglia e la chiesa stessa hanno detto: 'giustizia e non vendetta. Non generalizziamo, quello è un criminale. Prendetelo, ma non facciamo le ronde e le campagne contro i rom'. Hanno avuto un ruolo di moderazione ma non capita sempre così.
     
    Da parte dell'opinione pubblica italiana c’è sicuramente un grandissimo interesse e una grande aspettativa per Obama, anche da parte dei moderati o addirittura conservatori, ma diciamo che ancora non c'è assolutamente il senso di nesso tra quello che Obama sta facendo in materia di welfare, in materia di azione sociale degli Stati Uniti e quello che invece sta accadendo in Italia. Lì si viaggia veramente su un altro piano, quindi direi che il fattore Obama in Italia non gioca”.
     
    Il viaggio negli USA. L’antica comunità Valdese in Nord Carolina
     
    Letizia Airos: Torniamo a questa vostra visita negli Stati Uniti.
     
    Paolo Naso: “Siamo stati a Grand Rapids nel Michigan, dove c'è la sede della chiesa riformata americana. Poi siamo stati a Louisville Kentucky, dove ci sono gli uffici e la sede della chiesa presbiteriana. Poi siamo stati a Vosendorf North Carolina per questo simposio. Siamo stati a Konnectady per una consultazione ecumenica. L’intento è quello di creare un Network ecumenico negli Stati Uniti di sostegno all'American Protestant Society”.
     
    Letizia Airos: E so che siete stati anche nel Nord Carolina dove c’è un insediamento di Valdesi...
     
    Maria Bonafede: “Si, dalla fine dell'800, e la cittadina si chiama proprio Valdese.
    Arrivò lì un presidio di circa 150 persone. E lì abbiamo anche la sede della Waldesian Society, l’ associazione di collegamento, di sostegno dei Valdesi in Italia. La visita era anche per questo motivo. Però, certo, c'è una comunità insediata di persone italiane che parlano ancora italiano, anzi il dialetto delle valli valdesi. Erano immigrati per fame nel corso delle ondate di emigrazione, ma ora sono tutti ricchissimi. Sono circa 250 persone”.
     
    Marina Melchionda: Invece a New York non esiste più una Chiesa Valdese?
     
    Maria Bonafede: “Non c'è più. Da una quindicina d'anni l'hanno chiusa perchè erano tutti vecchietti. I figli, quelli che diciamo sono rimasti protestanti, si sono integrati con le chiese presbiteriane locali e metodiste.”
     
    Il rapporto con la Chiesa Metodista
     
    Marina Melchionda: Quindi vi sentite rappresentati a New York dalla Chiesa Metodista?
     
    Maria Bonafede: “Noi in Italia siamo una Chiesa integrata; Valdesi e Metodisti dal '75 sono diventati una Chiesa. Adesso stiamo cercando di rivedere anche questo, ma i rapporti ecumenici internazionali li abbiamo mantenuti separati. Perché per molto tempo la famiglia metodista parlava con i metodisti europei ed americani e venivano sostenuti da loro e, viceversa, noi parlavamo con i metodisti italiani. Adesso non è più così, perché ci sono altri paesi che hanno più bisogno dell'Italia di essere sostenuti, non ci sono più le missioni in Italia. Però manteniamo questa amicizia di denominazione, per cui se un Valdese entra in una chiesa riformata americana trova la stessa struttura, lo stesso modo di pensare, di votare, di vivere l'organizzazione”.
     
    Il Valdese, il territorio di appartenenza, italianità e cosmopolitismo
     
    Letizia Airos: Come è il rapporto del Valdese con il territorio, con la cittadinanza?
     
    Paolo Naso: “E' complicato, nel senso che esistono due anime: una valdese, fatalmente legata al territorio delle Valli Valdesi, un territorio storico, un territorio eloquente, i simboli, i luoghi storici, i luoghi delle persecuzioni, i luoghi dell'emancipazione, quindi c'è un rapporto strettissimo, oserei dire fideistico, con il territorio".
     
    Letizia Airos: Con l'Italia invece?
     
    Paolo Naso: “Esiste un'altra anima, che non è in opposizione, ma in dialettica. A cui io appartengo, come il mio cognome ben evidenzia, ed anche la moderatora. Siamo evidentemente italiani, non siamo Valdesi etnici, la mia famiglia viene dalla Sicilia, la sua anche, ed invece la mia percezione è piuttosto una percezione cosmopolita, universalistica. Io sono cresciuto nell'idea che sono valdese, di una piccola chiesa riformata, in un piccolo posto dell'Italia, ma faccio parte di un universo culturale, teologico, simbolico, che ha una rilevanza mondiale. Quindi sono due sensibilità diverse: una territoriale, molto importante, e l'altra secondo me, non meno rilevante e fortemente universalistica. Cioè, il modo della piccola minoranza di rafforzare la propria identità è quello di sentirsi parte di qualcosa di molto più ampio”.
     
    Maria Bonafede: “Io direi che per tanto tempo i riferimenti culturali erano per i valdesi dell'Europa e delle Valli Valdesi del Piemonte, non era l'Italia, ma la Francia o la Svizzera. Loro sono diventati italiani in qualche modo ed hanno anche una propria vita. I pastori fino all'inizio del '900 venivano formati a Ginevra o in Francia, ma non c'era una scuola teologica, non c'era neanche la libertà di girare”.
     
    Chiesa Valdese e percorsi di studio
     
    Stefano Albertini: Adesso invece avete una facoltà a Roma?
     
    Maria Bonafede: "Si, si, a Roma, e serve alla Chiesa Valdese, ma anche alla chiesa metodista. Persino i Battisti e i Luterani italiani vengono nella scuola valdese".
     
    Paolo Naso: “Uno degli scopi della nostra visita è legato al fatto che già nel 2008 abbiamo realizzato una Winter School a Roma, in collaborazione con 5 winter schools e seminari americani. Questa stessa esperienza si realizzerà anche nel 2010. Ha avuto un grande successo, nel senso che l'avevamo modulata per 11 o 25 partecipanti che invece sono stati 40, che hanno fatto diversi percorsi curriculari, alcuni di natura più tipicamente teologica, quindi archeologia biblica, archeologia dei primi secoli... Altri invece di natura più sociale e politica, quindi dialogo inter-religioso, sociologia delle religioni, pluralismo e laicità nel contesto europeo. Inoltre questo è un invito aperto. Nel 2010, quando sarà rinnovato, se alcuni studenti della NYU ci volessero raggiungere saremmo molto contenti”.
     
    Cosa vuol dire essere un pastore donna
     
    Letizia Airos: Per concludere, una domanda tutta al femminile. La sua esperienza come donna pastora...
     
    Maria Bonafede: “Devo dire due cose: innanzitutto credo che sia un'esperienza più femminile che maschile, infatti nella Chiesa mi sembra che l'ingresso delle donne crei più circolarità dell'informazione, più collaborazione, senza perdere autorevolezza.
     
    E’ importante il fatto di poter mettere molto più in comunicazione le persone nella chiesa e dare valore a tutte le persone, riuscire a trovare dei compiti, insomma, vedere cosa uno sa fare e metterlo in condizione di farlo, e di dare del suo.
     
    Questo a me sembra una cosa che è aumentata con l'introduzione delle donne nel ministero. Devo dire che in Italia le cose sono cambiate. Quando io ho cominciato nell'84 c'era molta resistenza alle donne in Chiesa. Diciamo che è dal'62 che esiste il ministero femminile.
     
    Nell'84 io sono andata in una Chiesa dove, io non lo sapevo, avevano votato 10 anni prima nell'ordine del giorno che non avrebbero mai ricevuto una donna pastore. Poi le cose sono cambiate e la tavola di allora mi invitò.
     
    Io non sapevo questa cosa, ne me l'avevano detta. Sono arrivata ed ho avuto delle famiglie che non venivano in chiesa. Me l'hanno detto chiaro, ed era a Brescia. Anzi, paradossalmente la decisione, il meccanismo che ha portato al sì per il ministero femminile viene dalla Sicilia, dal sud Italia, non dal nord.
     
    Lì son stata ricevuta molto male all'inizio. C'era uno che faceva il giardiniere, lo vedevo sempre in giardino, con molto amore per lui e per la chiesetta. Un giorno gli chiedo: 'Perché non vieni in chiesa?'. Risponde: 'Non mi interessa'.
     
    Dopo quindici giorni mi ha finalmente confessato che io ero la causa. Gli ho fatto notare che io non potevo cambiare la mia identità, ma che lui avrebbe perso la sua comunità. Diciamo che dopo Natale superò tutto. Con la conoscenza ci si rende conto.
     
    Questo problema oggi non esiste più. Le chiese ricevono pastori e pastore senza problemi”.
     
    Letizia Airos: E' più difficile per una donna?
     
    Maria Bonafede: "No, io credo che sia più semplice, non c'è più da dimostrare. Io sono la prima donna eletta in una Chiesa autonoma, perché le Chiese più grandi sono autonome ed eleggono il loro pastore. Io ero a Roma perchè mio marito era stato chiamato ad insegnare alla facoltà. Quindi da Brescia sono andata a Roma per motivi di famiglia, diciamo.
     
    Poi ho cominciato a lavorare un po' come aiuto pastore. Quando poi il pastore è andato in pensione mi ha votata. Solo dopo 10 anni ho letto i verbali della mia elezione. C’era scritto: ‘E' una donna, ma ha il marito che è pastore ed insegna, quindi c'è una garanzia. Ha un bambino piccolo, però ha due lauree...’. Ci voleva qualcos'altro? Due lauree ed il marito che insegna indicavano garanzia di stabilità. Non bastava avere i titoli giusti per essere eletti a Roma. Evidentemente ci voleva qualcosa di più: che io fossi già laureata in un'altra disciplina ad esempio.
     
    E poi non riuscivano a dire pastore, per cui ecco: professoressa, dottoressa, maestà, reverenda madre! In una casa di riposo è arrivata una suora dicendo: 'Come la devo chiamare? Reverenda Madre?'. Le ho detto 'Io un bambino ce l'ho, quindi se mi vuole chiamare reverenda madre o solo madre!".
     
    Daniele Ministeri: E' così è nato anche il termine Moderatora?
     
    Maria Bonafede: “Si, questo termine è brutto, però è stato coniato dalle donne della Chiesa. Io non l'ho cambiato, volevano sottolineare che dopo '800 anni era la prima volta. Loro hanno detto, qui è cambiato qualcosa. C'e' qualcosa di molto diverso, non si tratta soltanto di femminile e maschile, ma di un'era nuova. Comunque ognuno lo dice come vuole".

     

     
    Brevi cenni sulla Chiesa Evangelica Valdese
     
    La Chiesa Evangelica Valdese è una chiesa riformata di tradizione valdese. Presente da quasi un millennio in Italia, ha fedeli nelle cosiddette Valli Valdesi, ma anche sparsi sul territorio italiano e partecipi di una storica diaspora .
     
    Va ricordata l'isola linguistico-religiosa di Guardia Piemontese in Calabria (CS), dove la popolazione, pur non professando ormai la fede riformata valdese, a seguito della strage del 1561 ad opera dell'inquisizione romana, parla ancora un dialetto provenzale. Molti di loro sono anche presenti all’estero, in particolare in Argentina e Uruguay.
     
    Dopo molti secoli di dure persecuzioni, i valdesi hanno acquistato la libertà legale nel 1848, sotto Carlo Alberto. Da allora la Chiesa Valdese si è sviluppata e diffusa in tutta Italia.
     
    Dal 1975 è unita alla Chiesa Metodista Italiana, dando vita all'Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi.
     
    In Italia il dialogo ecumenico con la Chiesa Cattolica è sempre stato difficile, soprattutto a causa di questioni etiche e morali. Nel corso della storia l’impegno politico della comunità Valdese è stato molto importante e diversi suoi esponenti sono stati anche eletti nel Parlamento italiano.

     

     
    La Pastora Maria Bonafede è stata la prima donna moderatora della Tavola Valdese (l'organo esecutivo del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi).

     
    Il Professor Paolo Naso, insegna Scienze Politiche all’Universita di Roma, La Sapienza.
    Il suo campo d’interesse prioritario è nel rapporto tra religione e politica. Tra le sue pubblicazioni: : Il verde e l'arancio. Storia, politica e religione nel conflitto dell'Irlanda del nord, Claudiana, Torino, 1997; Il mosaico della fede. Le religioni degli italiani, Baldini e Castaldi, 2000; God Bless America, Le religioni degli americani, Editori Riuniti
     
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    (Articolo realizzato grazie alla collaborazione di Daniele Ministeri, Marta Donatone e Marina Melchionda)

  • Life & People

    Scuola d'Italia Plays a Major Role in NYC



    It has employed dozens of workers and has seen thousands of persons, transactions, checks, investments, and notes through times of economic crisis and recovery. We are talking about the majestic hall at Cipriani which for decades has been the headquarters of a bank that hosted the gala for "the La Scuola d'Italia “Guglielmo Marconi” this past Friday.

    This time the investment that was celebrated, strangely enough under the vaulted ceiling of a former bank, was the best of an organization that can look back on its achievements and congratulate itself: the education of the next generation. As Consul General Francesco Maria Talò said from the podium during the course of the evening, “education, especially during times of uncertainty, represents the best investment.”

    Here at Cipriani on 42nd Street, conceived by Louis Aires who in 1921 was inspired by the Italian renaissance, students, teachers, parents, and guests gathered to celebrate their school in the best possible way.

    The La Scuola d'Italia “Guglielmo Marconi” is the only school in North America that offers its entire academic curriculum in both English and Italian and an international education that constantly refers back to both Italian and American cultures.

    The evening’s program was rich and varied. Several hundred invited guests participated in a fundraising auction, dined on an exquisite Italian menu, attended a performance by students, and listened to remarks by illustrious guests.

    Conductor Petrika Melo began the evening by leading students in singing the national anthems. Students also presented a well-researched program on the international annual theme of astronomy. 

    “The Italian School has already realized several goals and is now entering a new phase. The next goal is the acquisition of a new academic building,” said the school’s new principal Anna Fiore in her presentation. Since her arrival, she has been known for her desire to involve the school directly in activities within the Italian and Italian-American communities. According to the Consul General, the school has played a major role in the city. “The new principal has understood how important it is to work together. This is a collaboration of intentions and interests that look to the future. The children have become true journalists thanks to one of the school’s academic programs. For example, they have interviewed the Italian Minister of Foreign Affairs Franco Frattini, and they have actively participated in Holocaust Remembrance Day by reading the names on Park Avenue outside the Consulate and interviewing witnesses. In this way, the school has played a major role in the life of the city.”

    The Consul General continued: “We all feel the effects of the crisis on the global economy. I believe that precisely under these circumstances it is necessary to consider the future while building a solid foundation for the next generation. We have a great future ahead of us. It is the children of the Italian school who are proof that great projects can be accomplished with great effort.

    The school’s generous donors have shown that they are making an investment in the future. Bubbles have burst and many certainties have shown themselves to be unfounded, but culture remains solid especially Italian culture and traditions. When culture is connected to the values and ideals of this great country that welcomes us, we have a mutually beneficial synthesis. These children with two cultures and two languages are truly the masters of their own destinies and they have a great future ahead of them.

    Stephen Madsen, chairman of the school’s board of trustees, also referred to the moment of economic crisis: “It is a small school of excellence with great ambitions that positively looks to the future despite the difficulties of today.”

    The gala and the evening’s events were seamlessly coordinated by Piera Palazzolo Falzone. Vice Principal Pia Pedicini was recognized for having completed 30 years of uninterrupted service to the school. “Over the course of three decades of total dedication to the school, Pia Pedicini has guided our institution with courage, vision, and competence. She has always been a role model and a source of inspiration,” said the principal.

    The evening was accompanied by music from the Ligurian artist Frank Balducci.

    Frank Fusaro, director of the Columbus Citizens Foundation, an Ethyle Wolfe historian, and member of the school’s board of trustees was also recognized for his 90th birthday. After watching a short film with several interviews and montages, he was given a certificate on behalf of “Rai 1” presented by Monica Maggioni. 

    Among the many guests and speakers, the following dignitaries were also in attendance: Apostolic Nuncio and Permanent Observer of the Holy See to the United Nations Archbishop Celestino Migliore, Director of the Italian Cultural Institute Renato Miracco, Directors of ENIT and Italian Trade Commission Riccardo Strano and Aniello Musella, President of the Italy-America Chamber of Commerce Alberto Comini, Lawrence Auriana, Chairman of the Columbus Citizens Foundation as well as Supreme Court Justice of New York Hon. Dominc R. Massaro and Vincenzo Marra President of the Ilica Foundation. 

    (Translated by Giulia Prestia)

  •   Angelo Bisconti e Andrea nel ristorante "Brio' a Manhattan

    "Pasticciotto a Obama". Arriva a New York una storia tutta da raccontare

    Per amore della propria terra? Per amore di Obama?  O per amore del proprio lavoro?

    Vi raccontiamo una storia tutta italiana. Comincia a Campi Salentina, un piccolo paese del leccese. Arriva a New York pochi giorni fa, nel ristorante “Brio” gestito dai fratelli Sconditti di origne pugliese.

    Ma fingiamoci un po’ cantastorie per narrare l’avventura di Mastro Angelo e Andrea, non alla ricerca del fantomatico Milione del signor Bonaventura - fumetto storico del Corriere dei Piccoli -,  ma alla volta della Casa Bianca. O almeno lo speriamo per loro. Perché ci piace credere che lo slogan Yes We Can possa aiutare a realizzare non solo i sogni della politica americana, ma anche quello di un artigiano proveniente da una famiglia di umili origini.

    I protagonisti della nostro articolo li incontriamo una sera a New York, dietro due vassoi di pasticciotti di crema e di cioccolato appena sfornati.  Sono Angelo Bisconti e Andrea pasticceri del Salento pugliese.  Si inventano un pasticcino dal nome bizzarro e decidono di portalo in America nella speranza di farlo conoscere al Presidente degli Stati Uniti d’America.  Questo dolce si chiama “pasticciotto a Obama”.

    Ma raccontiamo questa storia, anzi la facciamo raccontare da Angelo.

    “Ho una pasticceria da circa quindici anni. Nel mio laboratorio lavorano 8 operai. Questo dolce nasce dopo una lunga ricerca. Volevamo fare qualcosa di nuovo ispirandoci alla ricetta del pasticciotto, il dolce tipico del Salento.

    Era lo scorso autunno e in quel periodo Obama era ancora solo candidato.  A me già sembrava che sarebbe diventato un buon presidente degli USA. Esperimento su esperimento arrivammo alla combinazione perfetta del nostro dolce. Era il 5 novembre e scherzando dicemmo che Barack Obama era buono come il nostro pasticciotto. Tenevamo tutti molto alla sua elezione, per noi aveva un valore simbolico, nella speranza che con lui cambiasse non solo l’America ma tutto il mondo. Il pasticciotto andava dedicato ad Obama,  e fu chiamato pasticciotto per Obama dunque.”

    E quando parla del nuovo presidente degli USA si illumina. “Si, lo sento come una cosa mia. Dal primo momento mi ha dato sicurezza, è un portafortuna. E anche grazie al pasticciotto lui è diventato popolare nel mio paese. Non è una cosa da tutti i giorni. Non so se lo dedicherei un dolce a un politico italiano. Questo presidente Obama per me è molto importante. È arrivato in un momento di crisi mondiale e lui è l’unico che ci può salvare. A Campi parliamo di lui, guardiamo i servizi su di lui in TV e ascoltiamo i suoi discorsi.  Per me è come un figlio, un fratello, un genitore. E per tutti nel Paese è cosi.”

    Se passeggiando per il Campi però oggi si chiede a qualche bambino cosa è Obama, è molto facile avere per risposta ‘il pasticciotto’. Ma non deve stupire, anche per loro deve essere un esperienza indimenticabile sentire il cacao cremoso scivolare a sorpresa sul palato.  E amore per Obama a parte, questo sapore non si dimentica.

    “Tutti i bambini mi chiamano il Pasticciere di Obama” ci racconta ancora” Per venire in America ho chiuso la mia attività per un’intera settimana. Vorrei che la gente del mio capisse che se sono qui non è per fini commerciali. Faccio questo viaggio a mie spese, e per una settimana non guadagnerò nulla.”

    Sulla saracinesca del suo laboratorio c’è scritto: Portiamo il pasticciotto del Salento a NY.  Nelle sue parole una grande determinazione e un profondo amore per la sua terra:
    “Non voglio avere successo in Italia, non è questo il mio scopo. Io voglio far conoscere il mio paese di 11.000 abitanti, Campi Salentina, a tutto il mondo. Anche se non sono originario di lì devo molto al posto dove vivo ora. Vengo da un'umile famiglia e mi sono trasferito li solo nel 1995 e ho aperto la pasticceria. Dal primo momento mi hanno accolto tutti magnificamente, mi hanno voluto bene come un compaesano. Voglio ripagare questo Paese perchè mi ha reso felice.”

    E il sindaco di Campi ha dato al Pasticciotto a Obama la cittadinanza onoraria. “ Mi ha fatto sedere sulla sua poltrona. Massimo Como è di centro-destra. Ma ha dato comunque al nostro pasticciotto la cittadinanza onoraria, anche se è per Obama. I miei concittadini all’inizio credevano che fosse solo una trovata pubblicitaria. Assaggiavano il dolce e ne sminuivano il valore dicendo che  ‘era semplicemente nero’. Ma è frutto di lunghe ricerche. Esisteva già il pasticciotto nero con crema pasticcera al cacao, ma non quello per Obama. Questo l’ho fatto io e l’ho portato in America. Oggi è un marchio registrato intestato a me.”

    E il nuovo pasticciotto ha fatto un po’ il giro della zona. Angelo, anche se piccolo imprenditore, ha il senso della pubblicità. Sui muri, sui pulman, un po’ in giro per le strade della sua terra, il pasticciotto per Obama è apparso un po’ ovunque.           

    Ma cosa cerca ora in America? Vuole aprire un filiale? “Vorrei che il presidente vanga a conoscenza del tributo che gli abbiamo dato. Siccome la Casa Bianca ha cambiato colore, anche noi abbiamo cambiato il nostro dolce. Vorrei far conoscere il mio paese”.

    La ricetta la tiene segreta, ovvero l’ha donata al proprietario del ristorante Brio che li sta ospitando. I proprietari vengono da un paese vicino al suo e avevamo conoscenze in comune. Si dice felice dell’accoglienza calda di un locale italiano, ma ormai tipicamente newyorkese, ad un dolce così nuovo e  tradizionale al tempo stesso.

    Intuiamo gli ingredienti: uova, burro, farina e cacao.... “È buono sia caldo che freddo. La gente lo mangia sempre,  mattina, pomeriggio e sera. E poi costa pochissimo cosi tutti se lo possono permettere, 50 centesimi.” E continua il pasticcere, “Non abbiamo semplicemente aggiunto il cacao alla pasta frolla e e alla crema pasticciera. Abbiamo cercato di trovare nuovi equilibri tra burro farina e cacao. La pasta frolla del pasticciotto a Obama è completamente diversa da quella del pasticciotto classico.”

    Sul tavolo, affianco al pasticciotto per Obama, i classici pasticciotti. E’ chiaro lo chef vuole promuovere il prodotto della sua terra. “Nessuno al di fuori della zona lo conosce.. I pasticceri del Salento putroppo lo tengono quasi segreto, vogliono solo intascare il denaro e non hanno alcuna lungimiranza. Nessuno ha mai fatto un dolce per promuovere il Salento nel mondo. Sto producendo in questo ristorante non solo il Pasticciotto a Obama ma anche la versione classica. Voglio far conoscere il Salento, ecco perchè sono qui.  Non sono egoista. Sono stato anche a Milano, a presentare il mio prodotto alla Confederazione dei Pasticcieri Italiani. Loro mi hanno risposto che se fossi stato del Nord mi avrebbero aiutato a promuoverlo. Ma nel Sud la mentalità è molto diversa. Però ho le mie piccole soddisfazioni: ho clienti che vengono anche da fuor  per provare il mio pasticciotto. E gli altri pasticcieri tentano di copiarmelo.”

    Ed il pasticciotto è arrivato anche su Internet e facebook. Oltre a fare qualche apparizione televisiva… “Abbiamo aperto un sito dedicato al 'Pasticciotto a Obama". È  seguito e ideato da un grafico assunto appositamente. Siamo arrivati a 800 iscritti e abbiamo deciso che quando arriviamo a 1.000 facciamo una grande festa, l’Obama Night. La faremo al quartiere fieristico, che il nostro sindaco ci metterà a disposizione per l’occasione. Grazie ad un amico abbiamo anche fatto una ripresa per la RAI regionale.
    Facebook è stata un’idea di un mio amico che ha creato l’account. È un modo per mantenere in contatto tutti i ragazzi del paese sparsi per l’Italia per motivi universitari e lavorativi. E sono tutti accomunati dall’amore per il pasticciotto a Obama!”

    Ecco la storia del laboratorio Bisconti. Narrata con grande semplicità dai protagonisti.  Dunque arriverà da Obama il sapore intrigante della cioccolata che si scioglie in bocca del dolce del Salento? Avrà la squadra del nuovo Presidente, a cui è stato dedicato un dolce, la semplicità e anche l'ironia di aprirgli le porte? Noi crediamo che sia una storia tutta italiana. Per questo l’abbiamo raccontata.

    L'avvetura di un piccolo imprenditore e quella di un paese che vede nella novità Obama un segno di speranza. Ma sì, Yes We Can, viva la nostra piccola Italia grande nella fantasia e creatività dei suoi piccoli artigiani. Anche in tempi di crisi.

    E continua l’avventura… grazie all’ottimista alchimia di un pasticcere.

  • Facts & Stories

    Clash of Civilizations Over an Elevator in Piazza Vittorio. Interview with Amara Lakhous


    Clash of Civilizations Over an Elevator in Piazza Vittorio was just released in English. It takes the form of a monologue in many voices (each chapter is narrated by one of the characters in first person) that gives the reader a new perspective on Rome, a metropolis that is still adapting to its growing multi-cultural society.


    We sat down with Amara Lakhous at the Calandra Institute for an exchange of ideas that was more than an interview. We are convinced that his novel and his personal experience as an immigrant can also ignite a similar discussion here in America. There is a profound gaze in his eyes, and great determination in his demeanor as well as great calmness. Lakhous, who has lived in Italy since he was thirteen, tells us almost immediately with pride: “I became an Italian citizen four months ago and I define myself as Italian-Algerian.”


    “This is the first time that I have been to New York. It is the biggest city that I have ever seen. Algiers is a neighborhood in comparison. In certain respects my life in Piazza Vittorio was similar to life in my country. But there I found what I would define as the cultural and social laboratory of the future. It can be said that New York is the future of the world. In New York, one gets lost in the cultures, in the streets, in the history. This place is a preview of what Italy could become in a few years.”


    And describing his walks in Manhattan: “When one walks through Italian streets there is a feeling of being a minority, of insecurity. There is a delicate, difficult, and at times hostile relationship with one’s surroundings. Here, at least in appearance, I have not had this feeling. I immediately felt equal.”


    But for him Italy is also a place of freedom, a place that accepted and saved him: “I escaped, the same way anti-Fascists escaped Italy, and I had a great opportunity to continue to live and do the things that made me happy. I enrolled in college. I learned Italian and thanks to Italy I succeeded in mending the rift with Algeria.”


    For Lakhous, his relationship with the Italian language is fundamental: “One acquires freedom through language. It is power. It means to arm oneself with a powerful tool of survival, to live well, and to matter as a person. To quote an expression: tell me how you speak and I will tell you who you are. The ability to communicate offers status. It is not a tool in the same way eyeglasses are; it is a way of seeing. Thinking about language, you enter in confidence and you receive the soul of a people; you conquer part of the culture’s identity. Then the relationship with your native language changes, as does your way of speaking and thinking. And the beautiful thing is that you also change the language you acquire.”


    He tells his story and describes the relationship with his fellow countrymen with great simplicity, and with every word, comma, and accent you hear the intensity of someone who has lived in the first person.


    “Today there is a profound crisis in the Arab world; fundamentalism has surged into terrorism. Even if countries like Algeria have suffered through attacks and bloodshed for years there has been a discussion of terrorism on a global level only after September 11.


    Those in Arab countries live in intense contradiction in; corrupt regimes suppress the voices that can provide a true alternative with intellectual opposition.


    How can we reform democracy in the Arab world? I believe that immigrants have a great opportunity to do so. That is, to live democracy in their everyday lives, to live as Muslims in a spiritual dimension but not a political one, to live religion as a private dimension and to become a model [for the rest of the world].


    Today we live with globalization, and we communicate with our faraway relatives for fee. For example, I speak with my mother through Skype. Governments cannot practice long distance censorship. I am optimistic. Europe is also near the Arab world; they share common ties and memories. Muslim immigrants can become part of the process of mediation and democratization.”


    The title of his novel refers to the “clash of civilizations” theorized by Samuel Huntington and it is deliberately ironic: “It is a definition that has caused damage, even more so because it has been amplified by the media. Huntington has a responsibility, because of his choice of title. Civilizations that clash? That’s incorrect. If we want to say that civilization is culture and poetry, then I have never heard anyone speaking of a clash between Italian and Lebanese poets. Clashes are over oil, power…. Civilizations don’t clash. No civilization is born of nothing; it takes something from the previous one and gives to the successive one. The theory of clashing of civilizations, especially after September 11, has truly become a culinary recipe in the sense that it is simple and uses ingredients that are seemingly straightforward. We take for granted that there are two defined blocs – the West on one side and the Muslim world on the other. It’s erroneous; the Muslim world is not a separate bloc and the West is not a separate bloc. There are differences between the United States and Europe. There are differences between Italy and Holland. In Spain there are gay marriages, in Holland euthanasia…. The same is true for the Arab Muslim world; there are incredible differences. With my novel I wanted to present the idea that the “clash of civilizations” is a pretext to justify political and economic choices.”


    The author states that he has chosen to never directly address politics in his novels, but between the pages of his book it is evident that he is aware of the social and political power of literature. We remind him of the influence of Saviano’s novel Gomorra, successful in fighting and frightening the comorra more than any other means.


    “Literature is powerful because it moves from the abstract to the concrete. The value of Saviano’s book lies in his ability to tell real stories about real people. When one reads it, one cannot remain indifferent; one must take a position. One may identify with certain characters or keep them at a distance. In reading Gomorra an honest reader cannot help but reject the “system.” One can only react with repugnance, disgust. Literature has this power; it does not leave you indifferent.”


    We must also discuss the difficult relationship that Italians continue to have with their own history of immigration.


    “The relationship with memory is delicate. When we try to remember the past, we are presented with two difficulties. If what we have lived is negative, remembering means to relive it; if it is positive then it becomes longing and therefore sadness.


    It is a big problem. There is no way out; we must confront memory and assume responsibility while also taking suffering into account. This is why I use the metaphor of the “garden of memory.” If you have a garden, you must take care of it. It needs water and weeds must be pulled. If we do not take care of our memory, we risk finding ourselves in a garbage dump. Italians have been emigrants and they have created many positive things; it is enough to consider how much money they sent back home. They sent their children to school, they became important people, and they opened up to the world. There are also negative aspects, such as the mafia and the collective memory of great poverty…. I was impressed by a woman who I met here: she told me that up until a few years ago she did not want to be called an Italian-American….”


    Amara Lakhous is currently working on a new novel: “I am writing it directly in Italian. I first wrote Clash of Civilizations Over an Elevator in Piazza Vittorio in Arabic and then I re-wrote in Italian. This story is also set in modern day Italy but it deals with the experience of Italian immigration abroad and within Italy….”


    A film based on his book is also set to be released: “I did not participate in writing the screenplay. They did not involve me as I would have liked. It is different than the story in my novel; there are two new characters. But film is one thing, literature is another. The message of my novel will be passed on, even in this way.”


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    Amara Lakhous was born in Algiers in 1970 and has lived in Rome since 1995. He has a degree in philosophy from the University of Algiers and in cultural anthropology from La Sapienza in Rome. He currently works as a professional journalist. His first novel Bedbugs and the Pirate was published in 1999.

    (Traslated by Giulia Prestia)

     

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    Clash of Civilizations Over an Elevator in Piazza Vittorio
    Amara Lakhous, Ann Goldstein (translator)

    Europa Editions

    ISBN: 978-1-933372-61-7


    Pub. date: October 2008

    144 pages

    Size: 5.25 x 8.25

    Price: $14.95

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